Okay, non prendetevela.
Okay, non è il migliore di Eastwood, non è nemmeno
Gran Torino, non è
Iwo Jima, forse è un
Flags Of Our Fathers (circa).
Negli anni è stato accusato di essere prima un reazionario, un razzista, un
conservatore destrorso, poi un sinistrorso, un democratico, un attivista.
Di fatto Clint Eastwood rimane nella scena cinematografica attuale un
protagonista, che sia davanti o dietro la macchina da presa l'impressione è
che la sua voce non cesserà di farsi sentire per molto tempo ancora e che,
al di là del bene e al di là del male, il peso carismatico del suo pensiero
continuerà a tradursi nel magnetismo delle immagini in movimento, immune da
ogni forma o tentativo di categorizzazione semantica e di partito.
Certo stavolta il sospetto era legittimo sin dal principio; con i nuovi
mondiali di casa nel 2010, la scelta di celebrare il Sudafrica in uno degli
eventi sportivi più simbolici di tutti i tempi non poteva che mettere in
guardia la critica attenta, mentre l'elezione di Obama a primo presidente
nero degli Stati Uniti d'America e la ricorrenza del ventennale dalla
liberazione di Nelson Mandela sembravano occasioni troppo facili per un
match senza confronto.
Va' a sapere cosa frullasse veramente nella testa del buon vecchio Walt
Kowalski. Sicuramente il cinema. E quello c'è. C'è già tutto nel dolly
d'apertura con cui Eastwood stabilisce la distanza fra due mondi vicini:
quello della povertà, nera e affollata sul lato destro delle baraccopoli; e
la ricchezza, quella bianca ed elitaria degli afrikaners padroni della
terra, del lavoro, dei simboli, della lingua e quindi della vita e,
viceversa, della morte di un popolo. Ritroviamo subito il topos a lui
caro della frontiera, al di qua e al di là di una strada, mentre in un'unica
sintesi di movimento la mdp lascia abilmente emergere dallo sfondo il
secondo (se non primo) leit motiv di tutto il film: lo sport, in
particolare stiamo parlando del rugby.
Scarcerato l'11 febbraio 1990 dopo 27 anni di reclusione in un'angusta cella
a Robben Island, Mandela (Freeman) attraversa in un corteo di automobili una
strada fra due campi sportivi recintati. Da un lato, giovani bianchi in
divise sgargianti giocano a rugby; dall'altro, bambini di colore in stracci
rattoppati prendono a calci un pallone. Al passaggio della scorta,
l'allenatore dei bianchi sibila a denti stretti maledicendo il giorno in cui
il paese è andato ai cani fra le urla di scherno dei ragazzini vittoriosi
sul fronte opposto. Quattro anni più tardi Mandela viene eletto presidente
del Sudafrica. Mandiba (come viene comunemente chiamato secondo il
tradizionale nome di famiglia) è il primo presidente nero eletto dal suo
popolo in mezzo all'odio feroce di una minoranza bianca; ciononostante vuole
ricominciare dal perdono e dalla costruzione di un'unica e grande nazione
sudafricana. Per fare questo si rivolgerà al capitano bianco della squadra
degli Springboks, Francois Pienaar (Damon), incitandolo a sfidare
l'impossibile (il Sudafrica dei giallo-oro è dato perdente nell'imminente
torneo che vede favoriti gli invincibili All Blacks) attraverso le parole di
una poesia di William Ernest Henley, 'Invictus', che narra la storia di un
uomo che esce invitto, non sconfitto dalle prove della vita. Quell'uomo è lo
stesso Mandela, e sua l'anima che non si è piegata ai duri anni di prigionia
nella cella di Robben Island (in realtà Mandela diede a Pienaar un estratto
da "The Man in The Arena", il discorso tenuto da Teddy Roosevelt alla
Sorbona di Parigi).
Proprio nella relazione fra i due protagonisti, il Presidente e il Capitano,
si cela il primo anello debole. Manca paradossalmente un po' di storia in
più nonostante la storia sia già l'evento, o forse proprio per questo i
personaggi vengono lasciati galleggiare in superficie; e non basta la
sorprendente somiglianza fra l'ottimo Freeman e il Presidente, Mandela è
dipinto quasi interamente sotto il profilo di un tifoso che al rugby
inframmezza stralci di politica, mentre a Damon (Pienaar), ripreso il tono
di muscoli che già fu di The
Informant, non viene lasciato alcun campo di espressione se non
quello di gioco. Il film finisce col prendere le misure di una nazione, ma
non dei suoi cittadini; la musica in più di un punto è ridondante, a tratti
melensa specialmente nel finale, e fra i cosiddetti 'money shots' (ovvero là
dove si apprezza maggiormente il soldo investito dalla
produzione/duplicazione numerica sugli spalti, motion capture, CGI etc)
nasce qualche dubbio su un utilizzo forse eccessivo per quanto spettacolare
dello slow motion.
Eastwood semplicemente se ne infischia, ci crede, va dritto per la sua
strada e a suo modo vince comunque. Il pubblico in sala - fatto più unico
che raro nelle anteprime milanesi - resta rispettosamente seduto fino ai
titoli di coda (compresi). Peccato che l'ovazione rimanga al pubblico sullo
schermo.
20:03:2010
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