invictus

di Clint Eastwood

con Morgan Freeman, Matt Damon
Altri interpreti: Patrick Mofokeng, Tony Kgoroge

di Matilde CASTAGNA

 

24/30

 

Okay, non prendetevela.
Okay, non è il migliore di Eastwood, non è nemmeno Gran Torino, non è Iwo Jima, forse è un Flags Of Our Fathers (circa).
Negli anni è stato accusato di essere prima un reazionario, un razzista, un conservatore destrorso, poi un sinistrorso, un democratico, un attivista.
Di fatto Clint Eastwood rimane nella scena cinematografica attuale un protagonista, che sia davanti o dietro la macchina da presa l'impressione è che la sua voce non cesserà di farsi sentire per molto tempo ancora e che, al di là del bene e al di là del male, il peso carismatico del suo pensiero continuerà a tradursi nel magnetismo delle immagini in movimento, immune da ogni forma o tentativo di categorizzazione semantica e di partito.
Certo stavolta il sospetto era legittimo sin dal principio; con i nuovi mondiali di casa nel 2010, la scelta di celebrare il Sudafrica in uno degli eventi sportivi più simbolici di tutti i tempi non poteva che mettere in guardia la critica attenta, mentre l'elezione di Obama a primo presidente nero degli Stati Uniti d'America e la ricorrenza del ventennale dalla liberazione di Nelson Mandela sembravano occasioni troppo facili per un match senza confronto.
Va' a sapere cosa frullasse veramente nella testa del buon vecchio Walt Kowalski. Sicuramente il cinema. E quello c'è. C'è già tutto nel dolly d'apertura con cui Eastwood stabilisce la distanza fra due mondi vicini: quello della povertà, nera e affollata sul lato destro delle baraccopoli; e la ricchezza, quella bianca ed elitaria degli afrikaners padroni della terra, del lavoro, dei simboli, della lingua e quindi della vita e, viceversa, della morte di un popolo. Ritroviamo subito il topos a lui caro della frontiera, al di qua e al di là di una strada, mentre in un'unica sintesi di movimento la mdp lascia abilmente emergere dallo sfondo il secondo (se non primo) leit motiv di tutto il film: lo sport, in particolare stiamo parlando del rugby.
Scarcerato l'11 febbraio 1990 dopo 27 anni di reclusione in un'angusta cella a Robben Island, Mandela (Freeman) attraversa in un corteo di automobili una strada fra due campi sportivi recintati. Da un lato, giovani bianchi in divise sgargianti giocano a rugby; dall'altro, bambini di colore in stracci rattoppati prendono a calci un pallone. Al passaggio della scorta, l'allenatore dei bianchi sibila a denti stretti maledicendo il giorno in cui il paese è andato ai cani fra le urla di scherno dei ragazzini vittoriosi sul fronte opposto. Quattro anni più tardi Mandela viene eletto presidente del Sudafrica. Mandiba (come viene comunemente chiamato secondo il tradizionale nome di famiglia) è il primo presidente nero eletto dal suo popolo in mezzo all'odio feroce di una minoranza bianca; ciononostante vuole ricominciare dal perdono e dalla costruzione di un'unica e grande nazione sudafricana. Per fare questo si rivolgerà al capitano bianco della squadra degli Springboks, Francois Pienaar (Damon), incitandolo a sfidare l'impossibile (il Sudafrica dei giallo-oro è dato perdente nell'imminente torneo che vede favoriti gli invincibili All Blacks) attraverso le parole di una poesia di William Ernest Henley, 'Invictus', che narra la storia di un uomo che esce invitto, non sconfitto dalle prove della vita. Quell'uomo è lo stesso Mandela, e sua l'anima che non si è piegata ai duri anni di prigionia nella cella di Robben Island (in realtà Mandela diede a Pienaar un estratto da "The Man in The Arena", il discorso tenuto da Teddy Roosevelt alla Sorbona di Parigi).
Proprio nella relazione fra i due protagonisti, il Presidente e il Capitano, si cela il primo anello debole. Manca paradossalmente un po' di storia in più nonostante la storia sia già l'evento, o forse proprio per questo i personaggi vengono lasciati galleggiare in superficie; e non basta la sorprendente somiglianza fra l'ottimo Freeman e il Presidente, Mandela è dipinto quasi interamente sotto il profilo di un tifoso che al rugby inframmezza stralci di politica, mentre a Damon (Pienaar), ripreso il tono di muscoli che già fu di The Informant, non viene lasciato alcun campo di espressione se non quello di gioco. Il film finisce col prendere le misure di una nazione, ma non dei suoi cittadini; la musica in più di un punto è ridondante, a tratti melensa specialmente nel finale, e fra i cosiddetti 'money shots' (ovvero là dove si apprezza maggiormente il soldo investito dalla produzione/duplicazione numerica sugli spalti, motion capture, CGI etc) nasce qualche dubbio su un utilizzo forse eccessivo per quanto spettacolare dello slow motion.
Eastwood semplicemente se ne infischia, ci crede, va dritto per la sua strada e a suo modo vince comunque. Il pubblico in sala - fatto più unico che raro nelle anteprime milanesi - resta rispettosamente seduto fino ai titoli di coda (compresi). Peccato che l'ovazione rimanga al pubblico sullo schermo.
 

20:03:2010

invictus
Regia Clint Eastwood

Stati Uniti 2009, 134'

DUI: 26 febbraio 2010
Warner Bros

Biografico