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INUGAMI potrebbe essere un bel film se non indulgesse troppo in effetti speciali orrorifici sulla scia del filone americano. Probabilmente Harada si è lasciato prendere la mano dalla trama: gli Inugami sono delle divinità maligne, la famiglia della protagonista ha il compito di custodirle amorosamente, ma ad un certo punto l'equilibrio si rompe e gli inugami ne fanno di tutti i colori… Ancora una volta, però, l'estetica giapponese conferisce alle immagini una poesia ed un fascino del tutto particolari: il film è ambientato a Omine, un villaggio immerso nel bosco, sulle montagne. Il paesaggio, di per sé bellissimo, viene messo in risalto dalle frequenti riprese aeree; in esso sono incastonate le tipiche case giapponesi, con le porte scorrevoli fatte di carta, fragili e perfette, un arredamento sobrio, essenziale, dove ogni oggetto ha il suo posto. Luoghi che riflettono l'anima di chi vi abita, figure altrettanto fragili ed imperturbabili al tempo stesso: ogni loro movimento ha una tradizione, ogni parola un significato profondo. L'aspetto malinconico e sacrale del paesaggio, immerso in una sottile nebbia blu che è sogno e presagio, viene messa subito in rilievo dalla fabbrica di carta: Miki, la protagonista, lavora in un luogo isolato, dove fabbrica carta secondo una tradizione millenaria. Miki è una donna particolare rispetto al resto del villaggio, non solo perché lavora da sola e non è sposata; Miki, suo malgrado, ha il potere di scatenare le divinità maligne che le donne della sua famiglia custodiscono con timore reverenziale, è un personaggio istintivo alla ricerca di una femminilità che gli è stata negata. Il suo nome è giapponese, eppure a noi occidentali suona famigliare, come quello di un'eroina americana. In effetti Miki rompe con la tradizione e sfida uno dei valori fondanti della cultura giapponese: la famiglia, un'unità inviolabile che si fonda sul culto degli antenati. |
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Elena SAN PIETRO |
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