Si potrebbe definire un film palindromo,
se non partisse da una posizione diametralmente opposta a quella del
bellissimo PALINDROMES di Todd Solondz. Si potrebbe definire un film
underground della doom generation, se il sangue del film di Gregg
Araki non fosse trasfigurato da soffici petali e corvi piumati di rosso.
Si potrebbe definire un film on the road, ma ai deserti australiani di
KISS OR KILL si sostituiscono le periferie desolate degli Stati Uniti
del Sud. Si potrebbe infine definire un film sul rapporto tra una madre
e il figlio, ma non siamo dalle parti dello scorsesiano ALICE NON ABITA
PIU’ QUI.
Il secondo lungometraggio di Asia Argento sicuramente si nutre di
cinema, ma non è citazionista. Una scelta, di questi tempi, difficile e
controcorrente, alla ricerca di uno stile personale, folle, visionario e
iperveloce ma, allo stesso tempo, foriero di riflessioni socialmente e
moralmente aperte.
Ingannevole più di ogni cosa è la forma, sporca e imperfetta, di questo
film, che nasconde un’autentica necessità, quella di abbattere
l’indifferenza di fronte alla violenza, di non dare per scontato l’amore
madre-figlio e di approfondire, solo tramite le rischiose potenzialità
del linguaggio cinematografico, quello che un giudizio superficiale
potrebbe bollare frettolosamente.
Tratto dal libro autobiografico di J.T. Leroy, narra la storia di un
bambino strappato dai genitori adottivi e costretto a seguire la madre
naturale e i suoi tanti uomini, violenti o pedofili, passando tre anni
tra roulotte e camion, bar e motel, droga e prostituzione. L’inizio,
folgorante e disturbante, ha il pregio di evitare il compiacimento, di
privilegiare il significante all’effetto. Poi, procedendo forse un po’
troppo per accumulo, i cammei di personaggi famosi delimitano il
racconto attraversando il lato oscuro dell’America: gli assistenti
sociali con Winona Ryder, il fondamentalismo religioso con Ornella Muti
e Peter Fonda, il maledettismo nella quotidianità scialba di una baracca
di periferia con Marilyn Manson, la follia contrapposta all’ingenuità
con Michael Pitt.
Il finale è aperto a diverse interpretazioni e glissa quello originale
cupo e pessimista del libro; la regista spoglia il cuore dei
protagonisti mostrando quanto sia difficile etichettarlo, quanto
talvolta sia limitativo inscriverlo in un contesto sociale, quanto sia
fragile ma allo stesso tempo letale, ovvero, in una parola sola, quanto
sia ingannevole.
Voto: 25/30
02:03:2005 |