
Lo scenario è quello di una stanza semi-vuota, con una grande finestra
che dà su un mare tormentato dall'inverno; al centro c'è una scrivania
e una cinepresa alle spalle. Entra un anziano signore, con la barba bianca
e i lineamenti di chi ha vissuto intensamente la propria vita, si siede
e pensa. Pensa al passato, come capita spesso a chi ne ha molto alle spalle,
e in questo suo profondo meditare finisce per evocare Marianne, la protagonista
delle sue memorie e della storia che lui, regista, vuole scrivere per
il suo ultimo film. E Marianne si materializza, entra nella stanza e racconta.
Da questo momento in poi è la sua storia che ascoltiamo tutti: noi spettatori,
l'anziano regista e la stessa Marianne, forse per la prima volta. Nella
lettura simbolica della scena, l'atmosfera è quella di una seduta psicanalitica,
ma l'effetto taumaturgico coinvolge entrambi i protagonisti, assegnando
il ruolo del curatore a quella cinepresa che resta immobile alle loro
spalle.
Allora, Marianne parla di sé, attraente attrice di teatro, sulla quarantina,
sposata con Markus, direttore d'orchestra di fama internazionale e madre
di Isabelle, una bionda bambina di 9 anni. E la sceneggiatura prende vita:
il nostro regista incalza per ricevere dalla sua musa tutti i particolari
e l'ascolta attento e commosso per essere stato salvato dal suo vuoto
interiore. Marianne e Markus sono apparentemente una coppia felice, la
loro vita è piena, la loro casa è bellissima e hanno un amico caro, David,
un regista pieno di idee, con cui passano intere serate a chiacchierare,
a ridere, a condividere. Ma poi succede qualcosa di inaspettato e, nello
stesso tempo, assolutamente inesorabile: Marianne e David si innamorano.
Sembra una cosa semplice, immediata, ma non è così. La lentezza dei 155
minuti usati da Liv Ullmann per narrare questa storia è legata alle contraddizioni
della nascita di un sentimento voluto e contrastato, bellissimo e devastante,
sano e sbagliato allo stesso tempo. Tutto questo viene raccontato da Marianne
all'anziano regista e contemporaneamente ne scorrono le immagini, creando
uno strano contrasto tra ciò che suscita la narrazione in sé, che come
quella di un libro, stuzzica l'immaginario del lettore, e ciò che viene
rappresentato, che riporta lo spettatore al suo ruolo originario di fruitore
"passivo". Ma in questa duplicità di piani narrativi prende forma la confusione
di Marianne, che nella disperata ricerca delle parole adatte a descrivere
il suo tortuoso tormento, carica il contenuto di aggettivi e sinonimi,
riuscendo finalmente a rendere intatte le sensazioni.
Nella storia che si racconta tutti tradiscono: lo fanno Marianne e David
e lo fa Markus, ma lo fa la piccola Isabelle e questo serve ad attenuare
l'unica sfumatura moralistica del film: infatti, sebbene la Ullmann, non
si schieri, alla fine rappresenta Isabelle come unica vera vittima, inquinando
la sua imparzialità con un giudizio morale poco in linea con lo stile
dell'opera. Decisamente interessante è invece la scelta di rendere i momenti
più drammatici non come quelli oggettivamente tali, ma piuttosto come
quelli che vano ad uccidere i sentimenti, stravolgendo la vita interiore
dei personaggi.
Il ritmo del film, creato grazie a lenti movimenti di camera e primi piani
immobili suoi volti dei protagonisti, viene ravvivato dall'intensità del
racconto e dall'interpretazione di Lena Endre (Marianne), capace di reggere
la scena per lunghi momenti; ma non altrettanto dalle immagini che risultano
spesso banali e poco coinvolgenti.
Evidente l'impronta di Bergman che sceneggiando un racconto autobiografico,
si impersona nell'anziano regista e riprende un tema a lui caro con un
linguaggio ricco e degno di un'accurata introspezione.
Voto: 26/30
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