L'INFEDELE
di Liv Ullmann
con Lena Endre, Erland Josephson, Krister Henriksson e Thomas Hanzon



Lo scenario è quello di una stanza semi-vuota, con una grande finestra che dà su un mare tormentato dall'inverno; al centro c'è una scrivania e una cinepresa alle spalle. Entra un anziano signore, con la barba bianca e i lineamenti di chi ha vissuto intensamente la propria vita, si siede e pensa. Pensa al passato, come capita spesso a chi ne ha molto alle spalle, e in questo suo profondo meditare finisce per evocare Marianne, la protagonista delle sue memorie e della storia che lui, regista, vuole scrivere per il suo ultimo film. E Marianne si materializza, entra nella stanza e racconta. Da questo momento in poi è la sua storia che ascoltiamo tutti: noi spettatori, l'anziano regista e la stessa Marianne, forse per la prima volta. Nella lettura simbolica della scena, l'atmosfera è quella di una seduta psicanalitica, ma l'effetto taumaturgico coinvolge entrambi i protagonisti, assegnando il ruolo del curatore a quella cinepresa che resta immobile alle loro spalle.
Allora, Marianne parla di sé, attraente attrice di teatro, sulla quarantina, sposata con Markus, direttore d'orchestra di fama internazionale e madre di Isabelle, una bionda bambina di 9 anni. E la sceneggiatura prende vita: il nostro regista incalza per ricevere dalla sua musa tutti i particolari e l'ascolta attento e commosso per essere stato salvato dal suo vuoto interiore. Marianne e Markus sono apparentemente una coppia felice, la loro vita è piena, la loro casa è bellissima e hanno un amico caro, David, un regista pieno di idee, con cui passano intere serate a chiacchierare, a ridere, a condividere. Ma poi succede qualcosa di inaspettato e, nello stesso tempo, assolutamente inesorabile: Marianne e David si innamorano. Sembra una cosa semplice, immediata, ma non è così. La lentezza dei 155 minuti usati da Liv Ullmann per narrare questa storia è legata alle contraddizioni della nascita di un sentimento voluto e contrastato, bellissimo e devastante, sano e sbagliato allo stesso tempo. Tutto questo viene raccontato da Marianne all'anziano regista e contemporaneamente ne scorrono le immagini, creando uno strano contrasto tra ciò che suscita la narrazione in sé, che come quella di un libro, stuzzica l'immaginario del lettore, e ciò che viene rappresentato, che riporta lo spettatore al suo ruolo originario di fruitore "passivo". Ma in questa duplicità di piani narrativi prende forma la confusione di Marianne, che nella disperata ricerca delle parole adatte a descrivere il suo tortuoso tormento, carica il contenuto di aggettivi e sinonimi, riuscendo finalmente a rendere intatte le sensazioni.
Nella storia che si racconta tutti tradiscono: lo fanno Marianne e David e lo fa Markus, ma lo fa la piccola Isabelle e questo serve ad attenuare l'unica sfumatura moralistica del film: infatti, sebbene la Ullmann, non si schieri, alla fine rappresenta Isabelle come unica vera vittima, inquinando la sua imparzialità con un giudizio morale poco in linea con lo stile dell'opera. Decisamente interessante è invece la scelta di rendere i momenti più drammatici non come quelli oggettivamente tali, ma piuttosto come quelli che vano ad uccidere i sentimenti, stravolgendo la vita interiore dei personaggi.
Il ritmo del film, creato grazie a lenti movimenti di camera e primi piani immobili suoi volti dei protagonisti, viene ravvivato dall'intensità del racconto e dall'interpretazione di Lena Endre (Marianne), capace di reggere la scena per lunghi momenti; ma non altrettanto dalle immagini che risultano spesso banali e poco coinvolgenti.
Evidente l'impronta di Bergman che sceneggiando un racconto autobiografico, si impersona nell'anziano regista e riprende un tema a lui caro con un linguaggio ricco e degno di un'accurata introspezione.

Voto: 26/30

Francesca MANFRONI
17 - 08 - 01


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