
Verso la fine della seconda guerra
mondiale, August (Arana), un maggiore delle SS, si trasferisce con la
frivola moglie Franziska (Conti) presso un campo di sterminio con il compito
di condurlo a fianco dello spietato Tenente Tross (Sala). L’arrivo di un
servo ungherese particolarmente istruito e amante dell’arte, non solo
dischiuderà uno spiraglio di speranza a quei deportati che verranno assunti
all’interno della casa come musicisti e ritrattisti della bella ed
egocentrica Franziska, ma insinuerà il germe del dubbio nella mente dei due
devoti sudditi di Hitler.
Anche se i registi sostengono di non averlo mai visto, questo loro film –
opera prima per Piesco, autore anche della sceneggiatura – nei suoi momenti
più assorti e contemplativi da dramma da camera ricorda il bellissimo MOLOCH
del russo Aleksandr Sokurov, racconto d’una banale giornata di villeggiatura
del Führer in cui si respira una storia remota ma inquietante, e il senso
della tragedia filtra attraverso dialoghi idioti e deliranti e azioni
quotidiane persino misere. Ma se lì uno sguardo febbrile e una fotografia
avvolgente creavano un’opera puramente cinematografica che non aveva bisogno
di troppi dialoghi ed eccessivi sviluppi narrativi, qui una sceneggiatura
invadente delinea figure e snodi piuttosto rigidi a cui avrebbe di certo
giovato la dimensione maggiormente metaforica della rappresentazione
teatrale; una miglior predisposizione alla stilizzazione che avrebbe
attutito quelli che nell’immediatezza dell’immagine non possiamo non
percepire come schematismi. Allora forse non è un caso se il personaggio
meno riuscito finisce per essere proprio quel servo che Renzi interpreta con
l’enfasi tipica del palcoscenico: saccente più che colto, severo più che
appassionato, il personaggio paga l’eccessiva contrapposizione che sulla
carta si è voluto creare fra la sua nobiltà d’animo e l’ignoranza dei beceri
nazisti, e così si aliena quell’istintiva empatia di cui invece necessitava,
e che il pubblico da grande schermo utilizza spesso come chiave per entrare
nel vivo di una storia.
Ma combattendo strenuamente con le armi proprie del teatro, la strana coppia
Piesco-Molteni finisce per vincere anche alcune importanti battaglie. In
tutti i momenti in cui marito e moglie rimangono soli al centro di stanze
tanto inospitali quanto astratte, l’incantesimo brechtiano di raggiungere la
verità attraverso l’artificio si realizza con disinvoltura, anche perché
Arana e Conti (quest’ultima in un’altra buona prova dopo L’ORA DI RELIGIONE)
colgono la giusta misura fra realtà e simbolo. Allora attraverso i loro
dialoghi stanchi, e i silenzi eloquenti, arriva la brezza di ciò che sta
accadendo tutto attorno, un sentore delicato ma ammaliante di quel sonno
della ragione di cui l’Europa del tempo era schiava. Su questi due bei
personaggi avviati all’autodistruzione sembra concentrarsi maggiormente
l’ispirazione dello sceneggiatore, che finisce per affezionarsi alla
decadenza del loro mondo e arriva ad insinuare – coraggiosamente – nello
spettatore un moto di compassione nei confronti di due anime perdute nei
gorghi della storia, vittime a modo loro di un orrore che gli ha inquinato
l’anima, mentre la pietà per i deportati rimane sullo sfondo.
Gli autori sostengono di aver optato per la forma cinematografica anche
perché “in Italia paradossalmente è più facile fare un film che una
rappresentazione in teatro”. Una motivazione tanto semplice quanto
legittima, che fa perdonare alcuni arrangiamenti stilistici un po’ forzati.
Voto: 19/30
13.05.2004
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