Alberoni a cavallo del ’68 scriveva “ Sta
prendendo piede in Italia una nuova figura di potere. Una figura che ha
potere ma non ha alcuna responsabilità sociale di fronte alla nazione.
Questo è il divo…”.
Non c’è forse migliore pensiero per descrivere il concetto di divismo: divo
può dirsi infatti colui che assume comportamenti eccessivi, molesti e spesso
contrari alla legge. Il buon costume non esiste per un divo: e proprio per
questo è amato e rispettato. Il divo è venerato.
Il mondo arranca a stargli dietro.. e quando a un divo viene chiesta la resa
dei conti, l’assumersi delle responsabilità, la folla non vuole. Perché
altrimenti non sarebbe più un divo se si assumesse delle responsabilità.
Così il divo rimane immobile, fermo. Pare quasi non si sia mai mosso e che
tutti i polveroni li abbiano sollevati gli altri.
Forse è per questo che per raccontare Andreotti, o meglio il suo mito, si è
scelto proprio questo titolo: IL DIVO.
Se Andreotti fosse stato solo un attore, grazie al suo carisma e alla sua
apparente immobilità, sarebbe stato di sicuro il divo per eccellenza.
Corrisponde di fatti, punto per punto, alla corrente prima descritta del
divismo. Non è stato un attore, o per lo meno non doveva essere questa la
sua attività: è stato il sette volte Presidente del Consiglio Italiano,
candidato alla Presidenza della Repubblica, il “Papa Nero”, “l’uomo più
perseguitato della storia”, o forse il più grande millantatore della storia.
Comunque ci si voglia appellare, Giulio Andreotti ha ricoperto le più alte
cariche dello Stato, ha rappresentato l’Italia e per questo anche la sua
moralità: per questo la storia e il cinema non possono permettergli di
uscire senza memoria dalla sua stessa vita.
Sorrentino più che raccontare Andreotti, ha messo in scena una maschera. Una
vera e propria maschera: nel senso più teatrale che possiamo dargli. Una
maschera immobile, o per lo meno apparentemente immobile, che non guarda.
Parla con le mani. Una maschera che quando strabuzza gli occhi immerge il
suo interlocutore nel dubbio: nessuno sa cosa sta per accadere quando “la
Maschera” sgrana gli occhi.
Tutto è un palco: i palazzi del potere, i balli, le feste, le corse dei
cavalli. Gli omicidi invece no, vengono consumati in un silenzio privato.
Sono brutalmente reali: visti e rivisti da angolazioni sempre più irreali.
Le morti, i suicidi: tutto il sangue che mette in scena Sorrentino passa per
la musica estraniante di Teho Teardo. Una musica che all’inizio disturba,
quasi ferisce. Così elettronica, così pulsante di vita in rapporto a quei
corpi, a quei cadaveri eccellenti rimasti a guardia di segreti e pietre
tombali.
Una colonna sonora ambiziosa, una scelta audace ma riuscita che sottolinea
maggiormente la messa in scena del Divo: attorno a lui tutto accade, ma lui
non sa. Non ricorda mai il Divo, non poteva saperle certe cose. Perché il
Divo in quanto tale deve essere immobile: sono gli altri che cercano di
raggiungerlo.
Uno spettacolo in cui nessuno riesce davvero ad accusare Andreotti, a
renderlo colpevole di fronte a se stesso. Badalamenti, Balduccio di Maggio:
molti ci provano. Ma il Divo Giulio rimane sempre lì, immobile. Con la sua
maschera che lo avvolge: con quelle spalle curve e le orecchie piegate. Con
quella maschera che non è solo la maschera di Andreotti, ma la Maschera
foucaultiana del Potere.
Tony Servillo svuota di ogni pretesa polemica il suo personaggio per farne
un creazione a metà fra un burattinaio inconscio e il filo rosso e
inviolabile del destino. Un uomo che pare dare espressione al suo volto solo
per le forti emicranie che lo tormentano. Nemmeno i gesti d’affetto con la
moglie (interpretata dalla brillante Anna Bonaiuto ), possono nulla contro
le sue spalle curve e rigide.
L’opera di Servillo, che tanto calore ha ricevuto a Cannes (diversa dall’
“accoglienza tiepida” raccontata da Maria Rosa Mancuso) ha degnamente
meritato quasi dieci minuti di applausi e il Premio della Giuria.
Il divo piace ma allo stesso tempo spaventa, per la natura subdola e
grottesca che presenta. Un perpetrare il male per difendere il bene comune.
Una scusa ormai vecchia che da troppe Repubbliche muove i facinorosi
ingranaggi dell’Italia.
02:06:2008 |