Non si può dire che i
cinefili abbiano torto a disprezzare Sorrentino: effettivamente si tratta
del regista più caparbiamente anti-rosselliniano degli ultimi decenni, e
solo per questo ci riesce difficile biasimare chi lo condanna. Non esiste
film più diverso dal genialmente scabro didatticismo rosselliniano,
innamorato dei fatti duri e puri, di questo pompatissimo
videoclip-installazione innamorato della mistificazione-in-quanto-tale, che
cavalca gioiosamente le mille aberrazioni di uno dei personaggi-chiave del
dopoguerra italiano. Nessun film più diverso dal grandissimo
Anno uno rosselliniano su De
Gasperi di questo biopic su un Andreotti che appena gli si nomina De Gasperi
sbotta infuriato in un “lascia stare De Gasperi”.
Perché questo Andreotti ha due giganteschi scheletri dell’armadio,
infinitamente più grandi di quelli che la cronaca snocciola in questo film
alla velocità della luce: sono l’Etica e l’Estetica. Aldo Moro (il politico
di levatura che Andreotti teme di non essere mai stato) e la pittrice
interpretata da Fanny Ardant, della quale lo inquieta la totale
indisponibilità ad incuriosirsi di lui, caso molto più unico che raro. “Mi
pagano per interessarmi solo di me stessa”: lui invece il lusso
dell’autoreferenzialità non se lo può permettere, perché il suo lavoro è
rendersi invisibile e impersonale dietro la gang dei vari
Sbardella-Ciarrapico-Pomicino (eccetera eccetera), impegnata ad apparire, a
gaudere e a fare il lavoro sporco.
Etica e estetica sono i due fantasmi più grandi di Andreotti perché la sua
onnipotente maschera pubblica li fonde insieme disintegrandoli l’uno contro
l’altro. La valanga di malefatte (“Siamo tutti dei medi peccatori”, dice al
suo confessore) si nasconde dietro alla deformità (la gobba) e all’ironia
(le continue battute), ovvero le due direttrici principali dell’arte
contemporanea, che giunta alla fine del suo percorso (ovvero perdendo con la
società di massa la peculiarità di “oggetto separato” che la distingueva
dall’etica) si vede costretta a estremizzare il nichilismo duchampiano
nutrendosi di oggetti strutturalmente inadeguati alla propria cornice che li
nobilita esteticamente (il famoso orinatoio di Duchamp, per esempio).
Che fa allora Sorrentino? Essendo l’ironia l’arma definitiva di Andreotti,
si guarda bene dal dargli addosso. Non ingannino le risaputissime “denunce”
(tipo i mille delitti a lui attribuiti e di cui tutti erano da sempre a
conoscenza) che abbondano nel film:
Il Divo è un film apertamente in simbiosi con Andreotti, perché
totalmente costruito, appunto, sulla deformità e l’ironia. Muove la macchina
con nessuna sensibilità cinematografica (ancora: anti-rossellinianamente),
allo scopo di isolare frontalmente un oggetto immancabilmente kitsch (i
telegatti sul camino…). Tutto contribuisce a questo: angolazione,
composizione del quadro, linee e colori spietatamente nitidi… Lo stile di
Sorrentino è una sfilata di chincaglierie kitsch, una parata di oggetti che
esibiscono “urlandola” la propria inadeguatezza – in altre parole, la forma
visiva dell’autoironia… lo stile di Sorrentino insomma è una sequenza
additiva (1+1+1+1+1…) di pillole di autoironia, così come il
personaggio-Andreotti si trincera dietro una sequenza di battute e
calembour durata praticamente sessant’anni.
Perciò, è un bene che la cronaca con la sua valanga di dati scorra via
velocissima: non è tanto importante sapere quello che Andreotti ha fatto, ma
è importante, mettendo in primo piano la forma a discapito del contenuto,
ridare il cortocircuito di etica ed estetica che di fatto è l’intera vita
pubblica italiana degli ultimi decenni, in primo luogo perché l’informazione
coincide definitivamente con lo spettacolo. In quest’ottica, Sorrentino
arriva agli estremi dell’accoppiamento incestuoso informazione-spettacolo:
la spettacolarizzazione forsennata di stragi di mafia e omicidi tipo
Pecorelli è funzionale, come tutto il film, a evidenziare che il mostro che
pare avere una testa sola (quella sotto la gobba) ne ha in realtà due, etica
ed estetica, Aldo Moro e Fanny Ardant. Non nasconde più, come fa
l’informazione-spettacolo (e Andreotti) la propria duplicità, ma ce la
squaderna davanti. È la stessa duplicità che informa la tensione tra il
gioco gaudente sulla contraffazione estetica kitsch e, al contrario, il
gioco pedissequo sulle somiglianze (il sosia di Riina, il sosia di
Ciarrapico, il sosia di Caselli…). E soprattutto, informa la tensione tra la
maschera andreottiana e l’attore che gli sta sotto, un immenso Toni Servillo
che ruba ad Andreotti quello che Andreotti ha più a cuore: l’impersonalità,
demistificata e rivelata come esercizio di supremo virtuosismo.
22:05:2008
Cannes 2008 |