the hurt locker

di Kathryn Bigelow

con Anthony Mackie, Brian Geraghty

Altri interpreti: Guy Pearce, Jeremy Renner

di Gabriele FRANCIONI

 

20/30

 

Painting Private Kathryn

 

Kathryn Bigelow si è sempre espressa al meglio solo in partnership con sceneggiatori capaci di anticiparne le mosse, ovvero l’obliquo uso pittorico della m.d.p., diretta conseguenza di una formazione come visual artist. Dall’hopperiano (nel senso di Edward) e magnifico THE LOVELESS, dove Monty Montgomery portava le strade del racconto su terreni di calibrato, parsimonioso studio del paesaggio, aiutando Bigelow a definire una pennellata lenta e pastosa, sino a STRANGE DAYS, vorticoso assolo declamatorio di James Cameron, la regista californiana si è messa al servizio di complesse geometrie narrative, utilizzate come primo abbozzo a matita per successivi, ampi sviluppi cromatici.

Fondamentali, in questo senso, anche le collaborazioni con Eric Red (NEAR DARK e BLUE STEEL) e Rick King (POINT BREAK), dove l’accelerazione del tratto pollockiano di Bigelow nasceva dal ritmo della scrittura, sempre più articolata e complessa. Sintesi di claustrofobia urbana - BLUE STEEL e STRANGE DAYS - si alternavano all'ascolto del paesaggio - LOVELESS e NEAR DARK - quasi ad esprimere un’intenzionale esposizione di stili contrapposti, dall’espressionismo astratto al realismo allucinato hopperiano.

Il film con Cameron aveva anche passaggi di scintillante materia pop e necessari segmenti a metà tra videoarte e clip puro.

Dal 1995, complice il sabotaggio lucbessoniano del progetto su Joan D’Arc, Bigelow ha ripensato il suo cinema, tornando su paces decisamente più cadenzati, ma senza raggiungere i risultati ottenuti in precedenza.

Oggi KB segna il passaggio ad action-director, alternando tv e spot pubblicitari ipercinetici (MISSION ZERO), rinunciando definitivamente allo status di indipendente cui apparteneva, per così dire, di default.

Facendo leva su un’androginia ideologica che spesso alza la qualità adrenalinica delle sue opere - POINT BREAK ne era l’esempio più chiaro - la californiana di San Carlos ascolta di volta in volta la donna che è in lei (e risulta in minoranza rispetto a se stessa) come nel black-oriented STRANGE DAYS, o, assai più di frequente, il maschio combattente che ingombra i residui spazi della sua personalità.

Bigelow accetta, prima ancora della giustificazione politica, l’ambigua fascinazione visiva della tematica bellica.

THE HURT LOCKER è il parzialissimo, ambiguo, convenzionale sguardo rivolto dalla nostra transgender verso una materia delicata, che richiederebbe i guanti e non le cesoie, la seta e non il metallo.

Disinnescare strumenti del nemico nel deserto dei perdenti, accumulando metallo su pietra, creando un meccanismo tecno-primitivo dove la semplicità del paesaggio scabro viene quasi metallizzata da armi che sono robot in movimento (la scena iniziale vorrebbe replicare l’incipit di STRANGE DAYS), è il massimo contributo che un’ideologia deviata-dominante-demente potrebbe augurarsi.

Leggasi altrimenti come: rendere guardabile e affascinante la guerra può significare entrare in conflitto con un problema di coscienza, rischio rispetto al quale il soldato Kathryn sembra immune.

La storia del disinnesco, quindi un atto dovuto, un gesto simbolico di raffreddamento di altissime temperature belliche, nasconde invece la nota tracotanza degli ottusi caterpillar americani.

Non c’è nulla di nuovo in un film dove il puzzle va componendosi solo attraverso successivi accostamenti di scene identiche l’una all’altra, secondo lo schema: incipit/entrata in campo del fattore sorpresa/deflagrazione e deriva delle premesse “costruttive”.

Ogni passaggio è anticipato da ciò che lo precede, i dialoghi sono bestialmente ripresi dalla rozza etica della cameratesca solidarietà tra american soldiers, ignara, ma non per questo meritevole di chissà quale compassione, carne da macello abbandonata nel vuoto in cui l’eterno imbattibile Male contemporaneo (le amministrazioni americane da Truman in poi) hanno deciso di collocarla da qui a 100 altri, nuovi anni, come chiede il nuovo Presidente John McCain.

Una pellicola che mostra la mascella squadrata di un drappello di adrenalinici anonimi tipi umani, che hanno zero storia e complessità culturale dei kamikaze iracheni.

Tra prevedibili tentativi di copiare Kubrick (lo schema d’attacco è sempre quello del lungo finale di FULL METAL JACKET) e dialoghi domestici che preludono all’entrata in campo del canonico figlio-ancora-bambino-da-crescere-all’-ombra-di-un’-ideologia-mortifera, Bigelow non trattiene più nulla di ciò che era in passato, lasciandosi andare all’accettazione passiva di uno status quo che le garantirà, peraltro, nuovi film di questa caratura nel prossimo futuro.

 

04:09:2008

the hurt locker

Regia: Kathryn Bigelow
Stati Uniti 2008, 131'
DUI: 10 ottobre 2008
Guerra