hail

di Amiel Courtin-Wilson

con Daniel Jones, Leanne Letch, Dario Ettia

  di Gabriele FRANCIONI

 

22/30

 

Hail. Hail, Doc’n Roll ! Le cinema docmatique

 

Per qualche motivo eravamo convinti che HAIL avrebbe ricevuto un premio, ma la sua confezione festivaliera troppo spinta e una vaga aura post-dogma, l’hanno relegato tra I prodotti di medio livello di questa mostra-monstre. Sia chiaro: il primo film australiano presentato al Lido da un decennio a questa parte merita visioni, passaggi su cable-tv, persino una distribuzione (in patria) e future vite sui supporti digitali, ma sprigiona tutta la sua forza, similmente agli improvvisi scatti d’ira del protagonista, in un lasso di tempo troppo breve, senza lasciare profondi solchi nell’anima.  

Tutto è scorrettamente corretto: l’amore senza età dell’ex-galeotto per la sua donna invecchiata fuori campo; il disordine esistenziale che fa capolino dal passato per rigurgitare pena e rabbia sul presente; la lotta per una ricollocazione improbabile nel mondo del lavoro, ora sbarrato e duro come un muro di gomma; il continuo rimbalzo emotivo di una mente bipolare tra ritrovate oasi di dolcezza privata e derive comportamentali quando è d’obbligo socializzare nel convivium. Quotidianità e cerimonia, poi, come ogni cinema sperimentale comanda, si alternano con calibrata irregolarità. A dirla tutta, il film è una continua dissertazione ossimorica sul vivere senza protezione, privati di quel contraccettivo psichico che i luoghi di costrizione & coercizione (carcere/casa di cura/grotte-famiglia) garantiscono a chi è troppo esposto alla potenza devastatrice del “sentire”. HAIL discetta di vita da galeotti relegandola a ingombrante non-detto, tenendo fuori-campo e fuori-tempo il centro del problema. Un po’ come in SHAME e SAL e in decine di altri film a corpo unico del cinema odierno, tutti appesi a un protagonista-locomotiva incapace di reggere il peso complessivo dell’opera, il regista crede di potersi pilatescamente disinteressare di dare sostanza a queste masse corporee, di costruirne il passato, di cui sempre vediamo solo gli effetti su di esse (rughe/solchi emotivi/deformazioni). A dire: THE WRESTLER è l’esempio perfetto di come, invece, questo prae possa essere raccontato. Le visioni allucinate dei reduci del wrestling ridotti a larve o i riferimenti all’iconografia degli Eighties riescono a restituire spessore al Rourke presente, mentre i lavori di Franco, S.M.Queen e questo HAIL si chiamano fuori dall’agone registico e convocano solo entità fantasmatiche che crollano, esauste, dopo la prima mezz’ora, prive come sono di impalcatura, struttura, scheletro.

La 68° Mostra ha il grande merito di smascherare il CINEMA DEI CORPI e della m.d.p. che addosso ad essi sta. Handycam, inserti precariamente immaginifici (cavalli morti in caduta dal cielo), generosa non-recitazione, accelerazioni vs. rallentamenti: tutto questo ci tiene svegli per un’ora scarsa, ma non ci consente di parlare di grande cinema.  Possiamo anche commuoverci di fronte all’animalesco desiderio di vendetta che muove Danny nell’ultimo segmento del film: privato della compagna, quindi nuovamente slegato dal corpo sociale, cui lei lo spingeva semplicemente esistendo, sbuffa e sbraita come un bisonte colpito a morte, ma da quel momento, sempre più sghembamente, procediamo verso una conclusione prevedibile e anche la recitazione compulsiva di Daniel P. Jones non contribuisce più al buon esito complessivo. Attendiamo Courtin-Wilson, una volta superata la cortina ingannevole del doc-matismo coatto, a prove di fiction assoluta, dove una struttura narrativa decostruita non sia vissuta come peccato mortale da scontare tra le fiamme dell’inferno digitale.

P.s. girato negli anni ’40, HAIL sarebbe stato un buon post-gangster movie, zeppo di flash-back e strisciato da infiniti ma necessarissimi voice-over.

 

09:09:2011