
Parafrasando il meraviglioso corto intitolato
I francesi visti da David Lynch, naturalmente di Lynch, potremmo ribattezzare
questo nuovo lavoro di Allen I francesi non visti da Woody Allen. Proprio
l’impossibilità di, anzi la volontà di non vedere è
l’argomento principe nel film più metacinematografico del regista
newyorchese qui alle prese con le major hollywoodiane e le malattie psicosomatiche,
gli amori mai dimenticati e la propria città; Val Waxman è
il regista più evitato dai produttori per le manie che lo contraddistinguono
e l’intransigenza più assoluta verso ciò che non è
arte ma prodotto, e questo suo atteggiamento lo porta a girare spot pubblicitari
tra gli alci canadesi nel bel mezzo delle bufere di neve. Ellie (Tea Leoni),
la sua ex moglie che ora sta con un produttore, vive in California, ha
un erborista, decide di dargli una possibilità di riscatto affidandogli
la regia di un film su New York e Val (Woody Allen), per tutta risposta,
proprio sul set di questo film diventa improvvisamente cieco passando
da una situazione disperata a una tragica senza tralasciare nessuna gradazione
di grottesco, sempre accompagnato e sorvegliato dal suo agente Hal (Mark
Rydell), lo stesso che gli porterà la notizia che, nonostante la
pessima accoglienza in patria, il film in Francia è stato molto
apprezzato.
“Se Hollywood ti mette le catene tu chiudi gli occhi” sembra dirci Val.
E poi continua a tenerli chiusi di fronte alla produzione attuale, volta
le spalle ai meccanismi che incentivano l’industria del divertimento,
non degnare di uno sguardo chi ha strappato l’aura artistica al cinema
riducendolo a un passatempo per famigliole, mostrati indifferente alle
sovvenzioni che si alzano di pari passo con gli incassi e se ciò
non basta, attraversa l’oceano e recati lì ove l’auteur continua
a contare più del produttore. L’atto d’accusa di Allen contro la
deriva di gran parte della cinematografia americana usa come cavallo di
Troia quell’attacco al cinema di papà da cui è partita la
rivoluzione della nouvelle vague, stravolgendola, però in favore
di una lettura che resta quasi esclusivamente psicanalitica; Val ha un
figlio punk e ribelle a cui da anni non rivolge la parola e la sceneggiatura
del film a lui proposta narra di un uomo che si vede costretto a fare
uccidere il proprio padre. Edipo vince sui Cahiers du Cinema, insomma,
e si vede (un retroscena su tutti riguardo a questa battaglia: la Dreamworks
ha prodotto il film). La commedia imperfetta, abbozzata nel suo intento
polemico, procede alternando momenti di grande sceneggiatura a reiterazioni
di facili gag sulla cecità tenuta nascosta; lo splendido dialogo
iniziale in cui Val cerca di tenere a bada la propria gelosia in nome
di un rapporto civile con la ex moglie e, soprattutto, in nome del contratto
che la donna gli sta offrendo ha campi e controcampi capaci di sottolineare
i cambiamenti di personalità dello stesso Allen in un crescendo
che tocca vette di narcisismo filmato tendenti all’assoluto, ma resta
un punto isolato all’interno del film che poi si perde dietro la volontà
di non essere troppo caustico nonostante qui anche la consueta e intensa
dichiarazione d’amore per New York si riveli essere uno strumento di polemica
verso la mecca del cinema. Del resto Allen interpreta un padre che si
sente minacciato dal proprio figlio; da una parte ha Hollywood la bieca,
dall’altra tutta una cinematografia che non parla la sua lingua (a cui
nel film non si fa mai riferimento) e intendo Cronenberg, piuttosto che
Lynch o i fratelli Coen. Ciò che non vuole vedere è la fine
del proprio modo di fare cinema, ma l’unica minaccia è lui stesso.
Un buon regista a Hollywood riesce a girare buoni film anche da cieco,
il fatto che poi questi non vengano apprezzati è un problema che
si pone solo negli Stati Uniti dove altri registi, ben più ciechi
del nostro Val, furoreggiano. Probabilmente una satira di tono più
forte avrebbe sollevato anche i problemi che trascendono la produzione;
il risultato è che tutto resta solo accennato e il film perde di
chiarezza. Dall’Europa un dubbio ci assale: trasporre lo strumento della
polemica nei mezzi di creazione di un’opera piuttosto che renderla didatticamente
paradigmatica di un malessere avvertito sarebbe stato più raffinato,
no? Bunuel, dalla sua, nei propri film faceva sempre fare una pessima
fine ai ciechi, forse questa volta Allen ha sbagliato a somatizzare per
quanto questo coincida con un segnale di ripresa; noi gli auguriamo di
rimettersi presto, è da quando ha finito Pallottole su Broadway
che non sta bene.
Voto: 25/30
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