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Figlio dell'interesse per l'horror giapponese che pare aver conquistato gli
Stati Uniti dopo il trionfale successo della versione Verbinskiana di THE
RING, THE GRUDGE si pone come ulteriore stadio dell'ibridazione USA-Giappone;
se il remake del film di Nakata si configurava sostanzialmente come
operazione di trapianto della storia in territorio americano per mano di un
regista americano, Sam Raimi, produttore di THE GRUDGE, alza ulteriormente
la posta e, non solo non rinuncia all'ambientazione asiatica, ma addirittura
affida il progetto a Takashi Shimizu, già al timone di tutte (ben quattro
considerando corsi e ricorsi in forma di sequel e remakes...) le precedenti
versioni del film. Trama sostanzialmente invariata, dunque, che non perde di
compattezza a seguito dell'espediente necessario all'inserimento del cast
americano nella vicenda, ma scorre su binari di maggiore linearità rispetto
a quella dell'archetipo giapponese. Variazione nipponica sul tema delle case
infestate, THE GRUDGE trova nell'adattamento ai gusti ed alle modalità di
fruizione della materia narrativa del pubblico occidentale il proprio
maggior difetto; vero è che la seguibilità del racconto appare maggiore e la
scenggiatura più compatta, d'altronde non ci sembra che l'atmosfera
potentemente onirica dell'archetipo giapponese abbia conservato la propria
terrificante efficacia. Se JU-ON si presentava come dramma psicologico
sull'incapacità di dimenticare la rabbia e sul terrore di rimanere
intrappolati in essa, THE GRUDGE posa la propria attenzione sul più
convenzionale canovaccio della sospensione della morte e l'interferenza di
spiriti inquieti con il mondo terreno. Shimizu dimostra ancora una volta di
aver sviluppato un proprio personalissimo sguardo sulla materia orrorifica e
la sua (ennesima) interpretazione della storia del piccolo Toshyo non
presenta smagliature dal punto di vista strettamente registico, sebbene
l'inserimento di elementi prossimi al gore (termine da intendersi in senso,
ovviamente, lato, trattandosi di un film prodotto da Sam Raimi e non da
Andreas Schnaas) paia remare contro la costruzione di atmosfere veramente
vincenti. Nella norma la performance del cast americano con un Bill Pullman
che interpreta benino il proprio (piccolo) ruolo, Jason Behr che sembra
scappato da una sit-com e Sarah Michelle Gellar che fatica a scrollarsi di
dosso un' immagine all-american che la fa apparire sempre leggermente fuori
posto. Film efficace e decisamente adrenalinico, che soffre della sindrome
da occidentalizzazione che affligge spesso questo tipo di operazioni e
taglia troppo corto sul complesso ed affascinante sistema di rapporti tra i
personaggi che in JU-ON lo stesso Shimizu dipingeva con inquietante
padronanza. Ad un regista che può vantare un film come MAREBITO, comunque,
si perdona tutto. Voto 25/30 11:01:04 |
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