Che ci sia un “cuore nero”
nel “Cacciatore bianco” Clint Eastwood è, financo, un’ovvietà. Però bisogna
stare attenti a dove si crede di trovarlo. Probabilmente, non è solamente
questione del paradosso del giustiziere (Dirty Harry e quant’altro), che
combatte la violenza con la violenza. Il vero cuore nero Eastwood lo tira
fuori quando fa ridere. Quando abbozza una autocaricatura che non può essere
una caricatura; non perché sia qualcosa di intoccabile, ma al contrario
perché conscio che la demistificazione non si libera del mito, ma lo
rinsalda. E allora non si può che stare con due piedi su due staffe diverse.
Il vero cuore nero di Eastwood è Bronco Billy. Il vero cuore nero di Bronco
Billy, in particolare, è la scena dell’assalto al treno: scena che non si
riesce letteralmente a maneggiare, a collocare. Una rivisitazione ludica del
Western che fu? Una scampagnata di allegri nostalgici di cavalli e praterie?
Sì, ma non solo. Quello era anche un “vero” assalto al treno.
Inevitabile, allora, che quando Eastwood si trova a fare un film così
esplicitamente testamentario come questo ricorra a dosi massicce di
umorismo. Il suo Walt Kowalski è un vecchio reduce della guerra di Corea
(come Eastwood, del resto), burbero e insopportabile che dopo la morte della
moglie non ha altra cura che la manutenzione perfetta della sua casa e del
suo massimo orgoglio personale (dato che il figlio,invece, è un perfetto
esemplare di mediocrità): l’auto sportiva “Gran Torino” nel suo garage. Chi
osa varcare il perimetro del suo giardino, si ritrova un fucile puntato
addosso. Il caso vuole, però, che i suoi vicini di casa siano esponenti
dell’oscura etnia Hmong, una popolazione cinese variamente minacciata e
diasporica nel corso dei secoli (l’ultimo soprattutto). Trovatosi a
difendere un paio di volte i suoi vicini di casa da alcuni violenti bulletti
del quartiere, Walt diventa per loro una sorta di eroe suo malgrado: lo
chiamano a cena, gli fanno conoscere l’impenetrabile nonna (che sputa e se
ne sta guardinga sulla veranda come fosse una perfetta immagine speculare di
Walt)… E soprattutto, conosce a casa loro Thao, giovane timido e perciò
oppresso dai violenti bulletti del quartiere.
Inizia così, per il vecchio reduce ormai condannato dalle analisi mediche,
una sorta di paternità tardiva, attraverso cui prenderà Thao sotto la sua
ala, gli farà trovare un lavoro, lo spingerà a corteggiare una ragazza… Ma
non gli insegnerà a difendersi. Anzi, quando la sua ragazza verrà pestata
dai bulletti, lui vorrà reagire ma sarà Walt a fermarlo. Sarà il vecchio che
esaspera la propria aggressività fino a cristallizzarla e disattivarla in
immagine (Walt spesso fa il gesto di estrarre dalla tasca una pistola solo
per poi puntare all’interlocutore due dita messe a L rovesciata) a
sacrificarsi facendosi mitragliare dai bulletti affinché questi vengano poi
arrestati dalla polizia; sarà lui a permettere a Thao di non sporcarsi le
mani come lui ha dovuto fare in Corea.
Ma proprio qui sta il punto. Walt decide di creare a sua immagine e
somiglianza qualcuno che è già come lui (magari per fuggire dalla simmetria
preoccupante che lo coglie quando guarda la vecchia Hmong sulla veranda…).
L’affinità scontrosa ma elettiva tra Walt e Thao è innescata dal fatto che
Walt non può non vedere nel ragazzetto che tenta di rubargli la macchina
perché costretto dai bulletti se stesso obbligato ad uccidere in Corea e
messo davanti alla necessità morale di rivendicare per tutta la vita un
gesto che non gli appartiene: un uomo non solo non può negare quello che fa,
ma non lo vuole neppure. Walt non può non vedere in Thao quello sradicato
che lui stesso è (come l’ultimo Ford de “Il grande sentiero” non poteva più
non dirsi indiano). E fare del ragazzo un altro se stesso vuole dunque dire
renderlo se stesso, almeno quanto farsi mitragliare per aver tirato fuori
dalla tasca un accendino (quello, appunto, col simbolo del primo cavalleria
in cui militava in Corea) al posto di una pistola vuol dire riconquistare
ciò che si è sempre stati, ovvero qualcuno che, come dice il prete che
assilla ma anche consiglia Walt, conosce la morte molto più della vita.
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Eastwood insomma indovina la quadratura del cerchio che permette all’asse
maschio-soldato-padre di morire, di venire sacrificata, senza che questa
risorga in maniera “veterotestamentaria” per vendicarsi e per perpetuare il
circolo infinito di violenza, ma per risorgere in maniera “neotestamentaria”
in forma disattivata, cioè come immagine. Questa quadratura del cerchio
consiste nel fare la caricatura di se stesso (e quindi dell’asse
maschio-soldato-padre) senza smettere di essere se stesso: una caricatura
innocua ma attiva. Come due dita che puntate al posto di una pistola
spaventano l’avversario; il quale, in un modo o nell’altro, davanti a un
gesto del genere non può non dirsi disarmato.
Andare in fondo all’inconsistenza della figura paterna per scoprire che è
proprio venire a contatto questa inconsistenza che fa diventare grandi. È
ciò che sta al centro della magnifica scena dal barbiere (che tra qualche
anno qualcuno ricorderà come oggi viene ricordata la scena del finto/vero
assalto al treno di Bronco Billy). Quando Walt porta Thao dal barbiere a
fargli vedere “com’è che gli uomini parlano tra loro”, Walt e il barbiere si
affrontano a suon di virili e aggressivo-amichevoli schermaglie verbali;
quando poi Walt dice a Thao di uscire dalla porta, entrare e parlare al
barbiere “da uomo”, lui gli ripete le esatte parole usate da Walt col
risultato che il barbiere gli punta un fucile in fronte. Ma poi, subito
dopo, ri-esce dalla porta, rientra e improvvisa un’altra raffica di virili
schermaglie verbali, e stavolta funziona. Imitare qualcuno/qualcosa è
impossibile, si può solo esserlo: ma è proprio scontrandosi con questa
impossibilità che si arriva ad esserlo. Walt sarà per sempre il solo vero
padre di Thao (e viceversa lui sarà il suo solo vero figlio) perché non
spinge Thao a diventare Walt (ciò che condurrebbe Thao agli stessi errori,
alle stesse violenze e le stesse debolezze che ormai Walt può ripagare solo
con la vita), ma perché spinge Thao verso ciò cui non è possibile aderire:
la sua immagine. Questo il senso della “transustanziazione” di Clint/Walt in
immagine, in caricatura che non smette di funzionare perché perfettamente
simbiotica con l’aria classica di GRAN TORINO.
"I’ve been called in many
ways, but never ‘funny’”: Clint/Walt dixit.
Se non vi scappa una lacrima, non c’è più speranza.
01:02:2009
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