gran torino

di Clint Eastwood

con Clint Eastwood, Bee Vang

Altri interpreti: Brian Haley, Geraldine Hughes

  di Marco GROSOLI

 

 

Che ci sia un “cuore nero” nel “Cacciatore bianco” Clint Eastwood è, financo, un’ovvietà. Però bisogna stare attenti a dove si crede di trovarlo. Probabilmente, non è solamente questione del paradosso del giustiziere (Dirty Harry e quant’altro), che combatte la violenza con la violenza. Il vero cuore nero Eastwood lo tira fuori quando fa ridere. Quando abbozza una autocaricatura che non può essere una caricatura; non perché sia qualcosa di intoccabile, ma al contrario perché conscio che la demistificazione non si libera del mito, ma lo rinsalda. E allora non si può che stare con due piedi su due staffe diverse. Il vero cuore nero di Eastwood è Bronco Billy. Il vero cuore nero di Bronco Billy, in particolare, è la scena dell’assalto al treno: scena che non si riesce letteralmente a maneggiare, a collocare. Una rivisitazione ludica del Western che fu? Una scampagnata di allegri nostalgici di cavalli e praterie? Sì, ma non solo. Quello era anche un “vero” assalto al treno.
Inevitabile, allora, che quando Eastwood si trova a fare un film così esplicitamente testamentario come questo ricorra a dosi massicce di umorismo. Il suo Walt Kowalski è un vecchio reduce della guerra di Corea (come Eastwood, del resto), burbero e insopportabile che dopo la morte della moglie non ha altra cura che la manutenzione perfetta della sua casa e del suo massimo orgoglio personale (dato che il figlio,invece, è un perfetto esemplare di mediocrità): l’auto sportiva “Gran Torino” nel suo garage. Chi osa varcare il perimetro del suo giardino, si ritrova un fucile puntato addosso. Il caso vuole, però, che i suoi vicini di casa siano esponenti dell’oscura etnia Hmong, una popolazione cinese variamente minacciata e diasporica nel corso dei secoli (l’ultimo soprattutto). Trovatosi a difendere un paio di volte i suoi vicini di casa da alcuni violenti bulletti del quartiere, Walt diventa per loro una sorta di eroe suo malgrado: lo chiamano a cena, gli fanno conoscere l’impenetrabile nonna (che sputa e se ne sta guardinga sulla veranda come fosse una perfetta immagine speculare di Walt)… E soprattutto, conosce a casa loro Thao, giovane timido e perciò oppresso dai violenti bulletti del quartiere.
Inizia così, per il vecchio reduce ormai condannato dalle analisi mediche, una sorta di paternità tardiva, attraverso cui prenderà Thao sotto la sua ala, gli farà trovare un lavoro, lo spingerà a corteggiare una ragazza… Ma non gli insegnerà a difendersi. Anzi, quando la sua ragazza verrà pestata dai bulletti, lui vorrà reagire ma sarà Walt a fermarlo. Sarà il vecchio che esaspera la propria aggressività fino a cristallizzarla e disattivarla in immagine (Walt spesso fa il gesto di estrarre dalla tasca una pistola solo per poi puntare all’interlocutore due dita messe a L rovesciata) a sacrificarsi facendosi mitragliare dai bulletti affinché questi vengano poi arrestati dalla polizia; sarà lui a permettere a Thao di non sporcarsi le mani come lui ha dovuto fare in Corea.
Ma proprio qui sta il punto. Walt decide di creare a sua immagine e somiglianza qualcuno che è già come lui (magari per fuggire dalla simmetria preoccupante che lo coglie quando guarda la vecchia Hmong sulla veranda…). L’affinità scontrosa ma elettiva tra Walt e Thao è innescata dal fatto che Walt non può non vedere nel ragazzetto che tenta di rubargli la macchina perché costretto dai bulletti se stesso obbligato ad uccidere in Corea e messo davanti alla necessità morale di rivendicare per tutta la vita un gesto che non gli appartiene: un uomo non solo non può negare quello che fa, ma non lo vuole neppure. Walt non può non vedere in Thao quello sradicato che lui stesso è (come l’ultimo Ford de “Il grande sentiero” non poteva più non dirsi indiano). E fare del ragazzo un altro se stesso vuole dunque dire renderlo se stesso, almeno quanto farsi mitragliare per aver tirato fuori dalla tasca un accendino (quello, appunto, col simbolo del primo cavalleria in cui militava in Corea) al posto di una pistola vuol dire riconquistare ciò che si è sempre stati, ovvero qualcuno che, come dice il prete che assilla ma anche consiglia Walt, conosce la morte molto più della vita.

Eastwood insomma indovina la quadratura del cerchio che permette all’asse maschio-soldato-padre di morire, di venire sacrificata, senza che questa risorga in maniera “veterotestamentaria” per vendicarsi e per perpetuare il circolo infinito di violenza, ma per risorgere in maniera “neotestamentaria” in forma disattivata, cioè come immagine. Questa quadratura del cerchio consiste nel fare la caricatura di se stesso (e quindi dell’asse maschio-soldato-padre) senza smettere di essere se stesso: una caricatura innocua ma attiva. Come due dita che puntate al posto di una pistola spaventano l’avversario; il quale, in un modo o nell’altro, davanti a un gesto del genere non può non dirsi disarmato.
Andare in fondo all’inconsistenza della figura paterna per scoprire che è proprio venire a contatto questa inconsistenza che fa diventare grandi. È ciò che sta al centro della magnifica scena dal barbiere (che tra qualche anno qualcuno ricorderà come oggi viene ricordata la scena del finto/vero assalto al treno di Bronco Billy). Quando Walt porta Thao dal barbiere a fargli vedere “com’è che gli uomini parlano tra loro”, Walt e il barbiere si affrontano a suon di virili e aggressivo-amichevoli schermaglie verbali; quando poi Walt dice a Thao di uscire dalla porta, entrare e parlare al barbiere “da uomo”, lui gli ripete le esatte parole usate da Walt col risultato che il barbiere gli punta un fucile in fronte. Ma poi, subito dopo, ri-esce dalla porta, rientra e improvvisa un’altra raffica di virili schermaglie verbali, e stavolta funziona. Imitare qualcuno/qualcosa è impossibile, si può solo esserlo: ma è proprio scontrandosi con questa impossibilità che si arriva ad esserlo. Walt sarà per sempre il solo vero padre di Thao (e viceversa lui sarà il suo solo vero figlio) perché non spinge Thao a diventare Walt (ciò che condurrebbe Thao agli stessi errori, alle stesse violenze e le stesse debolezze che ormai Walt può ripagare solo con la vita), ma perché spinge Thao verso ciò cui non è possibile aderire: la sua immagine. Questo il senso della “transustanziazione” di Clint/Walt in immagine, in caricatura che non smette di funzionare perché perfettamente simbiotica con l’aria classica di GRAN TORINO.

"I’ve been called in many ways, but never ‘funny’”: Clint/Walt dixit.

Se non vi scappa una lacrima, non c’è più speranza.

 

01:02:2009

gran torino
Regia di Clint Eastwood
Stati Uniti 2009, 116'
DUI: 13 marzo 2009
Warner Bros
Drammatico