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gran torino di Clint Eastwood con Clint Eastwood, Bee Vang Altri interpreti: Brian Haley, Geraldine Hughes |
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Il ritorno di Tom Joad, deus ex-MACCHINA due volte fordiano…
A corto di linguaggi attraverso i quali comunicare e di frontiere verso cui spostarsi, il Tom Joad/ Henry Fonda di GRAPES OF WRATH (1940, John FORD) torna nei panni inamidati e nel passo robotico di Walt Kowalski, l’uomo fattosi Macchina (ex-operaio della FORD, adesso ripara le vite degli altri, o dell’Altro Da Sè) da quando ha ucciso “almeno tredici uomini” nella guerra di Corea, 1952. Il Fonda di FURORE si portava dietro la colpa di un omicidio scontato in galera, ma trovava la forza di sputare sulla terra che le banche gli stavano espropriando. Kowalski/ Eastwood sputa e grugnisce, ma non per lanciare sfide. I suoi sono solo commenti amari, note a margine su der stand der dinge.. Lo schema tripartito colpa/ espiazione/ riscatto, attorno a cui costruire l’impianto etico e narrativo, poteva, in quel film, svilupparsi solo grazie a una doppia premessa: il linguaggio comune parlato anche dal nemico - le banche e il nuovo vicinato - e la vastità di una frontiera ancora tracciabile con lo sguardo rivolto verso la linea (infinita?) dell’orizzonte.
Sessant’anni dopo la frontiera non esiste più, perché da tempo spostata oltre i confini di quella nazione. Secondo un classico schema nordamericano, i popoli sconfitti in mille inutili guerre e piegatisi a servire il vincitore sotto casa sua, da bravi paria col silenziatore, ne erodono però gli spazi vitali e lasciano ai Kowalski di Detroit (metallica, grigia car-city), di Chicago, NY o Philadelphia una sola possibilità: trasferirsi in un altrove definitivo, oltrepassando “il” confine, andando a vedere in cosa consista il “dopo”, piuttosto che l’“altrove”. Per limitarci al racconto, infatti, l’omino meccanico si sacrifica per mandare in carcere una gang di orientali intenti ad esprimersi nella lingua d’adozione e a simulare guerre giocate alla PS3 o all’ X-BOX, proteggendosi dentro auto-carovana tanto simili a cingolati lenti e mortiferi. Privato di una frontiera “terrena”, il vecchio s’impossessa di quella ultraterrena, comunque vincendo la sua battaglia: ai boia designati da tempo che gli chiedono se ha l’accendino per la sigaretta (“D’ ya have a light(er)?”), ma temono una pistola, risponde serafico, frugandosi il taschino con progettata lentezza: “Oh yes, I have the light…” |
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Rigido per artriti e osteoporosi, ma anche perché squadrato (nel modo di pensare) come il suo furgone Ford, così diverso dall’estetica curvilinea orientale delle auto successive alla toyota-generation, Kowalski è sia il deus ex-machina della storia, che un vero e proprio deus ex-MACCHINA, un metalmeccanico ri-de-terminator tutt’ uno con pistoni e bulloni, lamiere e cerchioni, quasi la Creatura di un(a) METROPOLIS ribaltato/a. Interviene a risolvere i problemi dei dirimpettai coreani (pur ribadendo la necessità, l’imprescindibilità di difendere, quasi nutrire la Differenza tra chi s’impegna a “integrarsi” vicendevolmente) solo perché questi hanno preservato la lingua e le tradizioni dei padri. La distanza tra due culture ne permette la messa a fuoco reciproca, mentre l’annullamento (apparente) delle diversità, in particolare sul piano del linguaggio, è foriero di offuscamenti e perdite di senso. Risolto a suo modo il problema dello spostamento verso una nuova frontiera, sfrattato, privato della sacralità dello Steccato Bianco continuamente oltrepassato e violato (come accade con violenza inaudita all’ Henry Fonda di GRAPES OF WRATH), Kowalski/ Eastwood ha però bisogno di terminare il lavoro, appunto, sul linguaggio. Salvati i coreani buoni, Walt deve relazionarsi con quelli cattivi, con gli Indiani del 2009, i “non nativi”. Questi, fin dall’inizio del film, puntano ossessivamente la Ford Gran Torino del ’72 che Kowalski lascia in bella mostra nel giardino, senza guidarla. Ossessione che rivela il desiderio di appropriarsi di un passato che, almeno per le ultimissime generazioni di emigrati asiatici, non esiste. Se Kowalski ha radici che ne fanno una quercia secolare piantata saldamente nella propria storia di americano ad oltranza, i ragazzini di etnia Hmong di Detroit simulano un’ identità assente e, conseguentemente, vivono nell’ombra. Si muovono in branco - costituendo un io collettivo - ma dentro macchine scure, in una guerra di posizione giocata en ralenti. Non li vediamo mai dentro le loro case, ma li immaginiamo veloci solo col joystick, le playstation, le Xbox, la tastiera del notebook. Sono l’antitesi degli opposti tradizionalismi del protagonista e dei suoi dirimpettai: cerimoniali culinari da una parte, riti d’iniziazione dall’ altra (la caverna del garage zeppo di strumenti da metalmeccanico da conquistare col lavoro, magari lungo l’ arco di 50 anni; le presentazioni agli amici, filtrate attraverso una ritualità bassa ineludibile). |
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L’ossessione di Eastwood è per le date, la scansione del tempo, il radicamento verticale nella propria realtà. Quella dei musi gialli vestiti da gangsta-rapper è per una sopravvivenza fatta di spostamenti nell’ ipertesto delle strade, del mondo reale, a zonzo tra link e entità da raccattare con un click digitale o mentale che sia: dovrebbe bastare uno di questi click a scaricare il file della Ford Gran Torino 1972, ma il file ha un formato non compatibile, si porta dietro il virus minaccioso con la faccia di Callahan, è pesantissimo. Anche questa è ossessione per la conquista di date, di storia, ma tradotta in azioni/gestualità sempre abortite e orizzontali, prive di profondità, di scavo. Kowalski manda il ragazzino Tao alla guerra, facendolo lavorare alla gronda del tetto e così lo aiuta a piantare il palo (verticale) dei padri fondatori, i tremendi colonizzatori che così segnavano il territorio e attorno a quel palo costruivano case, poi città. La Gran Torino non verrà conquistata, contro-colonizzata, corrotta.
Tra due dispositivi semantici, oltre che etici, così divaricati, non esistono punti di contatto. Il film non ha aperture ottimistiche, è tragico. La tragedia è nello scivolare di segni-testi-parole l’uno sull’altro, la tragedia è nel linguaggio, nella sua morte.
Il protagonista prende la mira cercando d’inquadrare con la mano a forma di rivoltella i musi gialli, ma non per minacciarli, quanto per verificare se, nel mirino, ci sia qualcosa d’ intelligibile o solo dei vuoti, dei non sensi. Cerca, con quel gesto, d’ instaurare il solo contatto linguistico che crede il nemico sia in grado di comprendere, ma fallisce. Americano doc, non riesce a comunicare con delle copie, dei falsi yankee. Analogamente, anche se tiene il fucile a portata di mano, non spara, perché sa quale enorme abisso (ancora: semantico) separi il videogame dove si ammazzano birilli pixelati dal conflitto analogico, poi fisico. Potendo, tornerebbe alla spada, alla clava.
Quando va a morire, porta a compimento questa tragedia del linguaggio: l’ultimo fraintendimento (voluto) sull’accendino, ne è l’acme narrativa. è un sistema di segni che s’immola e cede di schianto di fronte ad un altro sistema di segni, il corpo parlante che s’inchina all’indistinguibile e indistinto brusio digitale, il sangue che si prosciuga davanti a uno schermo di pixel rossi e arancioni.
17:03:2009 |
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gran torino |
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