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la grande bellezza
di Paolo Sorrentino e con Sabrina Ferilli, Isabella Ferrari |
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22/30
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Sorrentino azzarda un gioco felliniano. Senza valutarne i
rischi e le difficoltà. E così la Roma che ci pone davanti è solo una cover
patinata di quella viva e smargiassa de
La Dolce Vita, dove c’erano
per davvero divi, paparazzi e scrittori talentuosi. In una Roma
sostanzialmente trasformata - anche perché attualizzata - il nostro Jep
Gambardella non può essere un novello Marcello perché si muove in una Via
Veneto magra e piena di ombre. Sono le ombre dei personaggi di Sorrentino,
fantocci vuoti, inanimi, che neanche più avvertono il senso della loro
decadenza - morale, ma anche sociale. In questo ci sembra che il regista
abbia le sue ragioni: dai blow up sui visi botulinizzati - e devitalizzati -
dei ricchi romani fino ai ritratti esasperati dei loro rituali serali, delle
feste sfarzose, cocainomani e piene di trenini “che non vanno da nessuna
parte”. E ci sembra anche che Sorrentino ci abbia regalato una preziosa
documentazione su Roma in tutti quei meravigliosi scorci che ne fanno la
città eterna: dal Gianicolo al Colosseo al Giardino degli Aranci alla
Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini. Piccoli scrigni di
bellezza, certamente, che fanno della stessa Roma un’attrazione fatale per
molti registi. Ma è davvero Roma solo o anche una “grande bellezza”? È davvero emblema di un mondo fastoso e festoso arrivato ora alla sua decadenza morale? È reale quella Piazza Navona deserta che attraversano Jep e Orietta? È davvero Roma quella città di donne eleganti, calma eterna, attici e ville paradisiaci? Dove sono finiti il traffico, i burini, i coatti e i palazzoni di periferia? Il gioco sorrentiniano ci sembra troppo fragile e superficiale, l’immagine della città troppo idealizzata e anche le feste - ci si passi il gioco di parole - troppo piene di zucche vuote. Forse, se Sorrentino si fosse accontentato di raccontarci la crisi morale ed esistenziale del suo protagonista e della sua cerchia di amici, avremmo apprezzato maggiormente questo film. Ma l’ambizione ci è sembrata eccessiva, quasi wellesiana. E poi, cosa succede davvero nell’animo di Jep non ci è dato saperlo: i suoi ricordi sono frammentari; la sua storia solo abbozzata; le sue analisi sul mondo acute, ma talvolta in contraddizione; le sue scelte di vita vacillano dalla sensibilità più estrema alla vacuità più infelice. Talvolta ce lo presentano come uno stupido mondano, un sadico, un fallito - dice ad un certo punto nel film: “Io non volevo semplicemente essere un mondano, volevo essere il re dei mondani. Io non volevo partecipare alle feste, volevo avere il potere di farle fallire” - e, talvolta, come un uomo colto, pieno di arguzia, di sarcasmo. La storia non ci aiuta a capire questo Jep; casomai, se siamo comunque capaci di provare simpatia per questo scrittore sessantacinquenne, lo dobbiamo alla straordinaria concretezza che Toni Servillo regala al personaggio. Un’interpretazione magica - tenera e cinica al contempo - che oscura le mille ombre attoriali che vediamo apparire e scomparire tra una scena e l’altra del film. |
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La grande
bellezza |
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