
"Me ne sto qua, non ho niente da dire, è solo silenzio nel mio sogno.
Mille amori reali nasceranno e moriranno, ma un sogno dura in eterno.
I giorni e gli anni passano uno dopo l'altro, ma il tempo si è fermato
nei miei sogni".
Con l'inerzia (apparentemente) calcolata della messa in scena di eventi
che denunciano programmaticamente la loro inevitabilità, un bellissimo
film inaspettato riscopre il potere evocativo delle immagini incontaminate
e la magia senza tempo del "non detto". Perché ci sono mondi interiori
che possono essere solo "vissuti" in quanto sede della rivelazione primigenia
dei sentimenti, radicale e sconvolgente e, ciò che più interessa, "ineffabile".
Sofia Coppola sembra aver attraversato di persona l'onirica soglia del
martirio adolescenziale, tracciata spesso da una famiglia che ti recide
dal mondo, piuttosto di recidere il cordone ombelicale dell'amore/protezione
come argine muto all'invasività contaminante dell'amore/liberazione proveniente
dal mondo "reale", fatto di balli della scuola, primi emozionanti "contatti",
coraggiosi superamenti del "limite".
Chi è stato almeno una volta "una ragazzina di tredici anni", conosce
l'urgenza vitale di tale superamento, ma l'osserva emergere, stupito/a,
da un'incerta consapevolezza di sé: nulla di ciò va chiamato per nome,
ma preso per mano e mantenuto al livello del SOGNO (come nel bellissimo
A DREAM GOES ON FOREVER, il brano di Todd Rundgren - 1973, "Todd", Bearsville
Records - riportato all'inizio, cfr. il
sito ufficiale di Todd Rundgren), della MUSICA, dell'innocente
"trip" tra anime sodali e "drogate".
La musica e l'immagine sognata sono i mezzi con cui le cinque ragazzine
della storia (realmente e tragicamente accaduta) tentano di esprimersi,
poiché le armi della logica (prima fra tutte la PAROLA) sono ancora sconosciute
e prerogativa degli adulti; e musica e immagine sono anche la sintassi
scelta coerentemente dalla figlia di Francis Ford Coppola per il suo vero
esordio cinematografico, se facciamo finta di non aver visto un suo cortometraggio
poco memorabile - LICK THE STAR - alla Mostra di Venezia del 1998 (anche
lì, peraltro, l'universo al centro della storia era il microcosmo sofferente
e teso di un gruppo di liceali). E così, diversamente da - poniamo - un
AMERICAN BEAUTY anch'esso a tematica familiare, non c'è bisogno di aspettare
che una voce fuori campo ci spieghi la poeticità dimessa di un sacchetto
mosso dal vento: occorre non parlare, non "fonetizzare" le intuizioni
di anime che sono tutta poesia. I viali e le foglie secche e gli alberi
malati davanti a casa sono i vocaboli del film, di un minimalismo denso
e consapevole, fatto di scelte e soluzioni registiche mai compiaciute,
esattamente come lo sono gli stupefatti silenzi disegnati sui volti delle
ragazze e come lo sono le musiche, datate attorno al '70/'75, aderenti
al testo filmico come non sempre accade, anzi, quasi costituentisi in
forma di ulteriori personaggi degni della scena, come quando le vergini,
costrette dai genitori alla segregazione forzata dopo una notte brava
in compagnia di appassionati coetanei, "dialogano" con questi (ciascun
gruppo nel suo appartamento) facendo ascoltare, via telefono, brani struggenti
e assolutamente pertinenti, nel testo e nel "tono", alla situazione: ALONE
AGAIN, di Gilbert O' Sullivan; RUN TO ME, dei Bee Gees; SO FAR AWAY, di
Carole King; HELLO IT'S ME, ancora del grande Todd Rundgren, tutti del
'71/'72 e tutti virati sui toni della lontananza e della solitudine. (Piccola
osservazione a margine: se Sofia Coppola è amica di Liv Tyler, allora
si spiega l'omaggio ai due musicisti che quest'ultima ha avuto, in tempi
differenti, come padri: lo stesso Rundgren e lo Steve Tyler - il padre
vero - leader degli Aerosmith, qui citati nella scena dei dischi… messi
al rogo). In altri punti del film, le musiche ricordano Angelo Badalamenti:
anche in questo caso il riferimento sembra opportuno. La Coppola, infatti,
fa un uso già maturo e controllato della citazione e, se riuscite a immaginarvi
l'atmosfera da "realismo magico suburbano" (secondo l'autodefinizione
della regista), capirete l'inevitabile ricorso ai "tableaux vivents in
stile francis bacon" presenti nell'opera di David Lynch, a cominciare
dal paradigmatico BLUE VELVET (1986), cui tutta la prima parte accenna,
quando inquadra con tono secco, e ritmi tra il morbido e il serrato, i
timori e tremori di un gruppo di ragazzine in un interno di provincia
(tremenda provincia) americana, contrapposti al meccanico e ottuso comportamento
degli adulti. Fino alla pompa dell'acqua che parte all'improvviso, con
una certa dose d'ironia, durante il primo epilogo tragico della vicenda.
Impossibile non elencare, per rendere giustizia alla consapevolezza della
regista, il Peter Weir di PICNIC AT HANGING ROCK (per la silenziosità
magica dalla quale sono avvolte, in vita e in morte, le adolescenti, quasi
sciamane sorridenti di un incombente evento/rito-di-oltrepassamento di
stati di coscienza, sentito come necessario, "indispensabile"); il De
Palma di CARRIE (per la scena del ballo scolastico, con tanto di ralenti
); Peter Jackson, ovvero HEAVENLY CREATURES/CREATURE DEL CIELO, per la
capacità delle ragazze, ma anche dei maschietti, di sopravvivere con gli
strumenti della fantasia onirica, che ri-crea mondi e visioni nei quali
perdersi o rincontrarsi, come i personaggi di plastilina animata nel film
del neozelandese o, qui, i viaggi esotici solo immaginati, altra idea
geniale del film. E anche GUS VAN SANT e ATOM EGOYAN….. In conclusione,
un'opera prima assolutamente notevole: guidata da una mano sicura, capace
di evitare gli eccessi tipici degli esordi, compresi quelli (non pochi)
presenti all'interno di una storia estrema.
Voto: 27/30
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