IL GIARDINO DELLE VERGINI SUICIDE
di Sofia Coppola
con Kirsten Dunst, James Woods e Kathleen Turner



"Me ne sto qua, non ho niente da dire, è solo silenzio nel mio sogno. Mille amori reali nasceranno e moriranno, ma un sogno dura in eterno. I giorni e gli anni passano uno dopo l'altro, ma il tempo si è fermato nei miei sogni".
Con l'inerzia (apparentemente) calcolata della messa in scena di eventi che denunciano programmaticamente la loro inevitabilità, un bellissimo film inaspettato riscopre il potere evocativo delle immagini incontaminate e la magia senza tempo del "non detto". Perché ci sono mondi interiori che possono essere solo "vissuti" in quanto sede della rivelazione primigenia dei sentimenti, radicale e sconvolgente e, ciò che più interessa, "ineffabile". Sofia Coppola sembra aver attraversato di persona l'onirica soglia del martirio adolescenziale, tracciata spesso da una famiglia che ti recide dal mondo, piuttosto di recidere il cordone ombelicale dell'amore/protezione come argine muto all'invasività contaminante dell'amore/liberazione proveniente dal mondo "reale", fatto di balli della scuola, primi emozionanti "contatti", coraggiosi superamenti del "limite".
Chi è stato almeno una volta "una ragazzina di tredici anni", conosce l'urgenza vitale di tale superamento, ma l'osserva emergere, stupito/a, da un'incerta consapevolezza di sé: nulla di ciò va chiamato per nome, ma preso per mano e mantenuto al livello del SOGNO (come nel bellissimo A DREAM GOES ON FOREVER, il brano di Todd Rundgren - 1973, "Todd", Bearsville Records - riportato all'inizio, cfr. il sito ufficiale di Todd Rundgren), della MUSICA, dell'innocente "trip" tra anime sodali e "drogate".
La musica e l'immagine sognata sono i mezzi con cui le cinque ragazzine della storia (realmente e tragicamente accaduta) tentano di esprimersi, poiché le armi della logica (prima fra tutte la PAROLA) sono ancora sconosciute e prerogativa degli adulti; e musica e immagine sono anche la sintassi scelta coerentemente dalla figlia di Francis Ford Coppola per il suo vero esordio cinematografico, se facciamo finta di non aver visto un suo cortometraggio poco memorabile - LICK THE STAR - alla Mostra di Venezia del 1998 (anche lì, peraltro, l'universo al centro della storia era il microcosmo sofferente e teso di un gruppo di liceali). E così, diversamente da - poniamo - un AMERICAN BEAUTY anch'esso a tematica familiare, non c'è bisogno di aspettare che una voce fuori campo ci spieghi la poeticità dimessa di un sacchetto mosso dal vento: occorre non parlare, non "fonetizzare" le intuizioni di anime che sono tutta poesia. I viali e le foglie secche e gli alberi malati davanti a casa sono i vocaboli del film, di un minimalismo denso e consapevole, fatto di scelte e soluzioni registiche mai compiaciute, esattamente come lo sono gli stupefatti silenzi disegnati sui volti delle ragazze e come lo sono le musiche, datate attorno al '70/'75, aderenti al testo filmico come non sempre accade, anzi, quasi costituentisi in forma di ulteriori personaggi degni della scena, come quando le vergini, costrette dai genitori alla segregazione forzata dopo una notte brava in compagnia di appassionati coetanei, "dialogano" con questi (ciascun gruppo nel suo appartamento) facendo ascoltare, via telefono, brani struggenti e assolutamente pertinenti, nel testo e nel "tono", alla situazione: ALONE AGAIN, di Gilbert O' Sullivan; RUN TO ME, dei Bee Gees; SO FAR AWAY, di Carole King; HELLO IT'S ME, ancora del grande Todd Rundgren, tutti del '71/'72 e tutti virati sui toni della lontananza e della solitudine. (Piccola osservazione a margine: se Sofia Coppola è amica di Liv Tyler, allora si spiega l'omaggio ai due musicisti che quest'ultima ha avuto, in tempi differenti, come padri: lo stesso Rundgren e lo Steve Tyler - il padre vero - leader degli Aerosmith, qui citati nella scena dei dischi… messi al rogo). In altri punti del film, le musiche ricordano Angelo Badalamenti: anche in questo caso il riferimento sembra opportuno. La Coppola, infatti, fa un uso già maturo e controllato della citazione e, se riuscite a immaginarvi l'atmosfera da "realismo magico suburbano" (secondo l'autodefinizione della regista), capirete l'inevitabile ricorso ai "tableaux vivents in stile francis bacon" presenti nell'opera di David Lynch, a cominciare dal paradigmatico BLUE VELVET (1986), cui tutta la prima parte accenna, quando inquadra con tono secco, e ritmi tra il morbido e il serrato, i timori e tremori di un gruppo di ragazzine in un interno di provincia (tremenda provincia) americana, contrapposti al meccanico e ottuso comportamento degli adulti. Fino alla pompa dell'acqua che parte all'improvviso, con una certa dose d'ironia, durante il primo epilogo tragico della vicenda.
Impossibile non elencare, per rendere giustizia alla consapevolezza della regista, il Peter Weir di PICNIC AT HANGING ROCK (per la silenziosità magica dalla quale sono avvolte, in vita e in morte, le adolescenti, quasi sciamane sorridenti di un incombente evento/rito-di-oltrepassamento di stati di coscienza, sentito come necessario, "indispensabile"); il De Palma di CARRIE (per la scena del ballo scolastico, con tanto di ralenti ); Peter Jackson, ovvero HEAVENLY CREATURES/CREATURE DEL CIELO, per la capacità delle ragazze, ma anche dei maschietti, di sopravvivere con gli strumenti della fantasia onirica, che ri-crea mondi e visioni nei quali perdersi o rincontrarsi, come i personaggi di plastilina animata nel film del neozelandese o, qui, i viaggi esotici solo immaginati, altra idea geniale del film. E anche GUS VAN SANT e ATOM EGOYAN….. In conclusione, un'opera prima assolutamente notevole: guidata da una mano sicura, capace di evitare gli eccessi tipici degli esordi, compresi quelli (non pochi) presenti all'interno di una storia estrema.

Voto: 27/30

Gabriele FRANCIONI
23 - 08 - 01


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