
Rappresentare la violenza al cinema comporta, tra gli altri, il rischio
di una facile omologazione del proprio film alle cosiddette pellicole
"di genere", specialmente americane, che hanno fatto della violenza un
vero e proprio topos narrativo. Lo spettatore, più facilmente di un tempo,
è portato ad accettare la presenza di situazione molto dure, per cui limitarsi
ad una messa in scena consueta della brutalità può non trasmettere più
emozioni vere, ma solo un senso di dejà vu. È per questo che, almeno al
cinema, la violenza che oggi impressiona maggiormente è quella che convive
con il quotidiano, dietro al quale si protegge. Garage Olimpo, il film
che Marco Bechis ha ambientato nella Buenos Aires della dittatura militare
degli anni Settanta, deve il suo forte impatto emotivo proprio alla dimensione
quotidiana e tollerata del terrore. L'immagine di una porta che si chiude
e che rimane sbarrata, ma dietro la quale lo spettatore sa che si stanno
consumando tremende torture fisiche è, soprattutto dal punto di vista
evocativo, forse più forte che non una diretta, e "scontata", rappresentazione
dell'atto stesso. Bechis costruisce il film attorno a questo dualismo
ordinario/straordinario, che traduce sullo schermo mediante una struttura
a due direttrici principali, quella orizzontale (la storia, la quotidianità)
e quella verticale (il terrore, i campi di concentramento). Sono due dimensioni
che si incrociano, coesistono, e la cui natura è già espressa dal titolo
stesso del film, che giustappone il sotterraneo all'ultraterreno (l'Olimpo,
regno degli dei), ovvero quanto di più "alto" si possa immaginare. "Noi
qui dentro siamo come dio" è ciò che dice infatti uno dei tanti carcerieri
del film, ed essi, lì sotto nel garage, sono realmente onnipotenti; e
così la macchina da presa del regista riprende spesso dall'alto, in verticale,
alcune delle loro vittime, le schiaccia e ne esplicita così la condizione.
Tra le due direttrici l'unico possibile punto di dialogo è incarnato nella
figura di Felix, il torturatore di Maria, che egli però già conosceva
e della quale si innamora. Cercherà di salvarla, anche se per puro egoismo,
ma a lei, come agli altri prigionieri, non è concessa via d'uscita. Una
scena più di altre può confermare quanto appena detto: Maria riesce casualmente
a fuggire, ma il portone attraverso il quale è passata rimane inquadrato,
dall'interno dell'autorimessa, senza che Bechis operi alcun taglio: rimane
lì ad aspettare il rientro forzato della ragazza. Evidentemente non esiste
più un punto di vista differente da quello sotterraneo, quello degli aguzzini,
unici artefici del destino dei desaparecidos.
Voto: 29/30
|