
Riscrivere le nascite delle nazioni, a posteriori o mentre stanno in qualche
modo accadendo [UNDERGROUND di Kusturiça], comporta sempre il ricorso
all'epica e, di conseguenza, l'impossibilità alla rinuncia di una
sorta di grandiosità tematico- visiva, dovuta al doversi rifare
per forza ad una messe infinita di dati e notazioni "di realtà",
poi trasfigurati dalla personale visione del regista.
Eppure tentare è sempre doveroso e, paradossalmente, anche Scorsese
ha creduto di aver fatto una qualche rinuncia : prendere la vicenda privata
di due protagonisti del periodo cruciale 1846/1863, intrecciati da vicende
private e pubbliche legate all'evoluzione della città di New York,
e porla al centro del film.
Ma conseguentemente a ciò, anche filmicamente, s'insiste sul close-up
inteso "filosoficamente" come "distanza-non-distanza"
dai fatti, dai personaggi e, soprattutto, dagli spazi. Quasi un approccio
teorico alla materia del film.
Eppure l' epica vuole spazi infiniti e narrazioni infinite, irriproducibili,
le seconde, nelle combattutissime tre ore scarse del film, mentre molto
di più si sarebbe potuto fare sul piano delle location intese tipologicamente
e dimensionalmente.
Usiamo questo termine perché Cinecittà sembra aver prodotto
fondali in scala 1:2, un po' come la villa sulla collinetta di PSYCHO,
realizzata più piccola per questioni di spazi della Universal,
ma sempre ripresa dal basso verso l'alto per sembrare più lontana.
Qui, invece, fin dall'inizio i vari Liam Neeson e Day-Lewis sono effettivamente
sproporzionati rispetto al dispendio di cartone e altri materiali dietro
di loro. E ovviamente l'osservazione non è limitata al mero aspetto
della "compressione" dello spazio centrale di Five Points, attorno
al quale ruota la storia, bensì coinvolge proprio quella intenzionale
rinuncia ai campi lunghi, al grande respiro, alla vera coralità
dei caratteri [ne abbiamo tantissimi, ma non tutti ben sviluppati] proprio
perché si è fatta una scelta rispettabilissima, ma che non
va a fondo delle proprie premesse. A dire: dal titolo, alla presentazione
del film fino ad a mille altre piccole scelte, Scorsese doveva puntare
ad uno scontro alla CAPE FEAR tra Bene e Male, tra due tipi umani senza
sfondo, senza masse, ad una storia privata che però in qualche
modo avrebbe influito su eventi ben più importanti, come il destino,
perlomeno, di una città.
Paradossalmente S. ci ha detto di più di certa New York ottocentesca,
meglio, fine Ottocento, con L'ETA' DELL'INNOCENZA, dove non a caso "si
parlava d'altro".
Ma forse, specie con la Miramax sempre alle costole, non si poteva fare
diversamente.
Grande show e "limitate" economie di spesa, star internazionali
e Cinecittà, orgoglio di lavorare con uno dei tre, quattro più
grandi registi viventi e irrefrenabile voglia di mettergli dei paletti.
Quello che dispiace di più, da questo punto di vista, è
che GANGS OF NEW YORK doveva essere il film scorsesiano per antonomasia,
mentre, ANCHE, circostanze esterne lo hanno reso spurio, quasi necessitante
di un seguito-spiegazione o autogiustificazione.
G.O.N.Y. è il classico prodotto d'arte troppo pensato, troppo voluto,
troppo rimandato, troppo caricato d'aspettative, anche perché -
e ciò è veramente ridicolo - queste vengono sempre dall'esterno
quando si tratta di genii o grandissimi talenti.
Lynch, Cronenberg, Kaurismaki, Scorsese sono liberissimi di sbagliare
e NON produrre sempre dei capolavori!!!
La speranza, o la convinzione, è che anche questo film col tempo
entri nel novero degli oggetti d'arte maledetti/ sofferti, puntualmente
recuperati come capolavori [ una volta calata la tensione cresciuta attorno
alla sua lavorazione ].
APOCALYPSE NOW, I CANCELLI DEL CIELO e altri titoli hanno seguito lo stesso
iter.
In ogni caso siamo di fronte ad un congegno di continua autoriproduzione
visiva talmente ricca, che è difficile non riconoscere lo straordinario,
immutato talento di Scorsese nel fare diventare tutto "cosa visibile",
pasta cromatica costantemente monitorata dalla m.d.p., che sale sopra
le cose e le persone e le frulla, come in CASINO o QUEI BRAVI RAGAZZI,
sempre interessata ai casi personali/nazionali di quelle classi sociali
che hanno costruito nel tempo la nazione americana partendo da altrove:
Italia e ora Irlanda.
A questo proposito ci viene persino il sospetto che l'ottica talvolta
esplicitamente filoirlandese del regista, specie dopo il feroce chiarimento
tra Cutting/ Day-Lewis e Vallon/ Di Caprio, non sia troppo piaciuta alla
Hollywood weinsteiniana, per esclusivi motivi di "gelosia di razza",
che forse avrebbe gradito uno spostamento più verso i nostri tempi
del testo scorsesiano, sì da garantire eguale, o almeno adeguata
"esposizione"alla componente ebraica, nella suddivisione dei
meriti per aver creato cotanto Stato.
Ma sono dettagli, ipotesi forse anche facilmente confutabili: eliminate
molte delle considerazioni fatte, siamo sempre nell' Empireo dei grandissimi,
che hanno, ripeto, tutto il diritto di fare anche i film per se stessi,
arrivati a una certa età, alla faccia di produttori che, dai tempi
di PULP FICTION, ora vogliono solo ed esclusivamente il prodotto mainstream
rastrella-oscar [e pare che anche con il terribile PINOCCHIetto benignano
dovranno accontentarsi di un bello zero nella tabella].
Intendiamoci: Benigni a Cannes '98 s'inchinò giustamente e, diciamo
così, realisticamente ai piedi di Martin Scorsese, per cui la Miramax
può anche fallire due volte al botteghino Usa e con l' Academy
con i film dei suddetti, ma noi il nostro personale Golden-Oscar-Globe
lo mettiamo sicuramente nelle fantastiche mani dell'italoamericano e lo
sfiliamo da quelle ossute e ormai poco espressive di un normale comico
italotoscano.
Voto: 30/30
Link:
www.gangsofnewyork.com
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