Jean è un
altoborghese della fine del secolo XIX. Sicuro di sé e di ciò che la
circonda,
in primis
della moglie. Che però, come apprende una sera al suo ritorno da una lettera
di lei stessa, lo cornifica e lo lascia senza alcun preavviso. Poi torna.
Disperazione, litigi.
E noia a non finire. La pericolosissima fascinazione di Chéreau per il
teatro, mai accantonata, in questo caso dà risultati deprimenti. La sua
regia di fatto si appiana su quella teatrale, stendendo un tappeto rosso
alle abilità degli attori e concedendo carta bianca al potere espressivo
della parola. Che però ha bisogno di un diabolico domatore, cioè un de
Oliveira (o uno qualsiasi dei grandi portoghesi) o un Rohmer: Chéreau invece
la lascia debordare senza ritegno, e alla fine le chiacchiere (perché questo
si scambiano Pascal Greggory e la Huppert, alla fine) allagano il film
insieme a quintalate di pathos senza senso.
E mosse altisonanti come l'alternanza tra colore e bianco e nero, o
l'intrusione improvvisa di caratteri di scrittura (frasi in maiuscolo tipo
"E LUI NON LA VIDE MAI PIU'!", per capirci) sullo schermo, fingono di
imbastire una dialettica espressiva cinematografica quando in realtà, al
contrario, buttano solo benzina sul fuoco di paglia delle emozioni sbraitate
ed appiccicaticce.
Voto: 20/30
09/09/2005
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