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1: PERCORRERE I VIALI DEL TRAMONTO Lanny Morris, americano, e Vince Collins, inglese, spopolano tra i comici televisivi degli anni Cinquanta. Sembrano Dean Martin e Jerry Lewis. Qualcosa va storto durante e dopo uno strano telethon che entra nelle case degli americani con il suo corredo di generosità, buoni sentimenti e colori pastello: una cameriera d'albergo viene ritrovata morta dentro una cassa piena di ghiaccio e aragoste e la stanza è quella occupata dai due. Dopo anni, dopo che il Male si è messo a lavorare insieme al Bene stringendo un patto che fa crescere il mistero attorno alla vicenda, troncando la carriera dei comici, una giornalista nota per i suoi ritratti di very-important-people inizia a ricostruire febbrilmente la verità presunta. Karen O'Connor/ Alison Lohman si mette sulle tracce di Vin & Lan, spregiudicata quanto loro, altrettanto ambigua. Lei, bambina, era presente a quel telethon: stringeva la mano di Vince che piangeva. Il film è l'incalzante racconto di questo pedinamento psicologico destinato a sconvolgere le esistenze precarie del trio. (Diciamolo subito: chi ha parlato di eccessiva lentezza di FALSE VERITA'ha le stesse colpe di coloro che si scandalizzano per la scena di sesso saffico. Ma gli opinionisti notturni di cinema, salvo un paio di eccezioni, sembrano dei coloristi dell'"Osservatore Romano" iscritti all'Opus Dei, precari sia per l'età media elevata, sia per il rischio di cancellazione dell'osceno salotto televisivo apparecchiato da un altrettanto osceno spaventapasseri della tv etimologicamente generalista"). E anche la splendida Alison Lohman si chiede: ma i sogni (della celebrità, del successo), aiutano a vivere meglio? O la vita stessa è (psicologicamente, cinematograficamente) un sogno, una visione, un'allucinazione drogata di pezzi di verità? O della verità fatta a pezzi da giornalisti affamati come squali? Lasciando da parte l'analisi dettagliata della storia in termini di accadimenti seguìti alla deriva esistenziale dei protagonisti, che incarnano e frullano Hollywood, la Tv americana e la stampa scandalistica, è fondamentale rimarcare come i presunti cambiamenti stilistici di Egoyan in questo film (compiacimento fine a se stesso, morbosità da morgue, cadenze ipnotiche e noia di fondo) non sono tali, se non in termini di processo evolutivo di una regia che si cala nelle atmosfere dello showbiz Usa e scrive la pagina mullhollandriviana dell'armeno-canadese. 2: IN ITALIA COMANDANO I MORTI La critica tranquillamente definibile come "ufficiale" (ovvero non libera e piallata dal dovere di elevare a prescindere pellicole edificanti, anche se orrende; quella stessa che ammorba i succitati salotti), appena intuisce la presenza di temi scomodi, attacchi più o meno diretti ai dogmi ideologico-teologici nazionali (come nel CODICE DA VINCI) o lucide analisi critiche del mondo dello spettacolo e della stampa (LE FALSE VERITA'), vaneggia e si compatta come un gruppo di soldatini di piombo terrorizzati da presunte deformazioni o attacchi alle proprie ridicole forme di micropotere, che vanno dalla selezione di film festivalieri, alla presidenza di commissioni da affidare ormai a gente non ultracentenaria e senza passato democristiano, e via deprimendo. In periodi di ricambi politico-culturali, certe persone vanno mandate in pensione, certi editori messi in disparte, certe trasmissioni tv soppresse. Non è possibile, se si è dotati di un minimo di capacità critica e di onestà intellettuale, attaccare con collera moralistica da catto-bigotti italiani un capolavoro come il film di Egoyan. (è forse meglio spingere "film brutti ma dal contenuto inattaccabile", come le recenti perle di uno Zagarrio?). Vadano ad analizzarsi, i dinosauri rinsecchiti di cui sopra, la stratificazione dei piani narrativi, sostenuta da flashback onirici che aumentano la ricchezza visuale degli anni Settanta con l'ambigua spensieratezza cromatica dei Fifties; la splendida costruzione del racconto che incrocia presente e passato con la chiara intenzione di decostruire certezze dei protagonisti e di spettatori e rendendo esplicità la falsità delle verità ("where the truth lies") del titolo. O la capacità d'imbastire un thriller hammettiano (ma anche lynchiano e ellroyano), che sceglie intenzionalmente il cuore nero losangelino come perno, centro e punto di ripartenza di tutti gli sviluppi della storia, per attaccare il vizio del mondo dello spettacolo di portare nella vita reale la capacità manipolativa in esso contenuta. Qualcosa di impenetrabile, perché si dota di meccanismi di contraffazione affascinanti (si veda anche un film minore come SESSO E POTERE, le guerre inventate a scopi elettorali e costruite a colpi di falsi reportage, i dubbi sullo scenografico sbarco sulla luna etc), che sono gli stessi del cinema come della stampa televisiva. Un film che coerentemente non emette sentenze, ma punta il dito contro un intero mondo e una pseudo-cultura minata da diffusa ignoranza, arroganza e limitato spazio per il talento e dove il fallimento, la crisi, i viali del tramonto sono attraversati come insopportabili tragedie (si veda il suicidio di Lanny). Il trauma viene deformato come se fosse, etimologicamente, un traum, un sogno, un incubo inaccetabile e irreale. Poi, messi di fronte alla propria mediocrità e alla tragicità del loro quotidiano, costoro saltano la fase dell'autocritica, della riflessione, della catarsi e vivono il proprio cupio dissolvi con inesorabile passività: attori frustrati, giornalisti che vorrebbero essere scrittori o sceneggiatori, comici che hanno rinunciato a essere attori, ex-"registi" di cinema riciclatisi nel contenitore televisivo e finalmente appaesati nell'idiozia delle fiction. Con loro, figurine di carta, crolla il senso dell'"immagine" stessa, così vuota, cava, eticamente spolpata. Ma forse qualcuno è beatamente convinto (o è costretto a esserlo) che semmai il CAIMANO, con la drammatica povertà espressiva del più recente nannimoretti, rappresenti meglio di FALSE VERITA'e di altri film un attacco al potere dei media: questo qualcuno, secoli fa, escludeva BLUE VELVET dalla selezione veneziana per "rispetto alla memoria di Roberto Rossellini" (colpa di Isabella, la di lui figlia, che Lynch mostrava irriverentemente nuda). Ha proprio ragione Bellocchio: nel mondo del cinema italiano, comandano i morti o, in loro vece, gli zombie. 3: CANADA Atom Egoyan è canadese come David Cronenberg, anche se entrambi figli dell'emigrazione e portatori di un'espressione culturale complessa e stratificata, garantita dalla provenienza allogena e predisposti naturalmente ad essere osservatori specialissimi del continente americano e degli Stati Uniti in particolare. Il loro terzo occhio, mentale, riesce a cogliere le realtà nascoste e la natura carsica della comunicazione visiva veicolata dal cinema americano, piena di un non detto e di un detto ma nascosto che è tipico delle nazioni affette da sindrome da eccesso di controllo, per paura che l'arte sveli le suddette verità agli occhi del resto del mondo. Questo accade da sempre negli USA, ed è naturale che l'immenso e trascurato Canada si assuma il ruolo di commentatore interessato di una cultura colonizzatrice e invadente (anche nei loro confronti), posta geograficamente "sotto", con la libertà tipica delle colonie anche anglosassoni sottrattesi in qualche modo al controllo delle nazioni-madre (Inghilterra-Irlanda prima, Stati Uniti, appunto, poi), anche grazie a ceppi linguistico-culturali, come quello francese, che ne arricchiscono la profondità storica e il bagaglio critico. Quando l'arte espressa da questo paese s'incontra con quella prodotta, a suo rischio e pericolo, all'interno degli Usa (ci riferiamo a David Lynch), trovando conferme, coincidenze, punti di contatto che rendono ancora più plausibile la "critica" esterna di cui si parlava, è quasi sempre possibile che si produca un capolavoro. Nel caso di Egoyan/ Cronenberg, poi, siamo di fronte a qualcosa di unico, forse, anzi certamente, garantito dal personale talento e dall'attitudine alla continua ricerca eterodossa e alla costante meditazione: i due registi in questione non hanno mai sbagliato un film. Cambiando ritmi e tempi del proprio modo di girare, Egoyan si avvicina più che mai ad una sorta di sintesi stilistica che include le atmosfere dei due registi citati, senza perdere nulla del carattere ipnotico del proprio cinema e, al contempo, esplicita, sin dal titolo, quello che è il senso complessivo della propria arte: le/la verità scorrono sempre sotto l'immagine e si mostrano subliminalmente, morbosamente oscurate da quel macro-testo ambiguo e "doppio" che è il vivere quotidiano.
23:05:2005 |
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