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THE Forgotten space di Noel Burch, Allan Sekula documentario |
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27/30
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Noel Burch è da decenni “un perverso”. Nel senso buono, ovviamente. “Perverso” è, innanzitutto, colui che cerca di separare la pienezza vitale dal linguaggio. A fare di Burch un perverso è dunque l’essere stato uno dei massimi grammatici del cinema. Non sorprende che, dal formalismo estremo, oggi Burch abbia transitato nell’eccesso opposto: il contenutismo più feroce, di ispirazione addirittura (orrore!) femminista. Secondo l’asse (imprescindibile) freudo-marxiana, a questa perversione ne corrisponde un’altra: ricostruire il lavoro “così com’è” (quando è invece la retrodatazione dello scambio a costituirne il valore). Burch e Sekula provano a fare questo: descrivere che cosa sia (diventato) il lavoro oggi. I due registi però non sono degli sprovveduti, e sanno bene che si tratta di un’impresa impossibile: non si può descrivere “oggettivamente” e direttamente il lavoro. Ci pensa già la forma-merce a nasconderne l’effettività. Bisogna dunque rincorrere la forma-merce non come un passepartout che rivela il “fondo perduto” dell’economia, ma precisamente coglierla nel suo stesso nascondersi. È questo nascondersi, infatti, che fonda l’economia globale. Ora, la forma-merce che oggi informa l’economia globale a partire dalla sua stessa, strutturale invisibilità, è il container. Lo vediamo poco perché scorazza in mare, e quel poco che lo vediamo sulla terra (magari sui treni) non ci facciamo caso. Burch e Sekula mettono subito le carte in tavola. Fare il punto sull’economia oggi significa fare il punto sui container: dove vanno, di chi sono, per cosa passano, eccetera. Quindi, grazie a un encomiabile lavoro di montaggio, mentre la voce over ci spiega diligentemente come stanno le cose, ci scorre davanti una sinfonia del movimento “suonata” dallo spostamento dei container su scala mondiale. Se l’economia è mossa dallo spostamento dei container senza più confini, deve entrarci negli occhi il viaggio quotidiano dei container (per questo sui titoli c’è l’immagine di un’assistente che pulisce l’obiettivo della cinepresa: letteralmente, sono i nostri occhi che devono ripulirsi). Ma qui le cose si complicano. Anche se all’inizio gli assomiglia, non si tratta del movimento “smooth”, perfettamente raccordato e fluido, del sogno (per dire) vertoviano, dell’utopia di fare dell’economia una sostanza, e di identificarla con il movimento. No. Perché quest’utopia (che era anche quella di Red ensign di Powell del 1934, le cui immagini scorrono infatti sullo schermo), con lo sfumare dei blocchi sovietico e statunitense l’uno nell’altro, è diventato il sogno della globalizzazione. E il film di Burch/Sekula a questo sogno dice no. Perché il movimento non è fluido né totalizzante. Perché i container si fermano, e creano crisi e disoccupazione. Perché condizionano da capo a piede la vita di ingranaggi economici che si chiamano “persone”. Su questo, ci sarebbe da cavillare – ma badiamo all’essenziale. L’essenziale è che Burch e Sekula adottano il movimento (navale soprattutto, ma anche ferroviario) dei container quale, formalmente la spina dorsale, il leitmotiv del loro documentario. E li seguono nelle tappe più battute del suo percorso: la California, Hong Kong, l’Olanda… Tutt’altro che per magnificarne la potenza (pure presente, per esempio nel mostrare un convoglio di container che si snoda letteralmente per chilometri), ma per snidarne le magagne, le devastazioni del paesaggio, i casi palesi di sfruttamento che ingenera. E anche le illusioni di “riconversione” che tentano di affrancarsene: ha voglia Bilbao basare la sua economia sul turismo (anche “artistico”, leggi Guggenheim), il settore secondario e i suoi ingombranti “residui” continuano a premere. Insomma: se Burch/Sekula inseguono questo movimento “totalizzante” che è la globalizzazione nella fisicità della sua circolazione priva di limiti, è meno per “raffigurarlo” che per restituire all’evidenza le contraddizioni che ingenera. La notevole felicità plastica dell’esplorazione degli spazi in cui si avventurano i due autori è funzionale proprio a questa evidenza. Quelle contraddizioni stanno per esplodere, a meno che noi non scoperchiamo un altro vaso di Pandora: quello della speranza.
11:09:2010 |
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