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LA FOLIE ALMAYER di Chantal Akerman con Stanislas Merhar, Marc Barbé e con Aurora Marion, Zac Andrianasolo |
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26/30
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No, non è un altro La Captive, purtroppo. Questo nuovo confronto tra l'inarrivabile abilità architettonica della Akerman e un adattamento letterario “impossibile” (Proust nel caso del film del 2000, Conrad ora), non dà i risultati sperati. Quando ancora una parte del sudest asiatico era francese, uno smunto ma elegante colono si vede sottratta la figlia (che ha sangue locale). Le sue certezze e la sua stessa esistenza traballano. Anzi, crollano così come crolla il sogno coloniale, o anche solo il sogno di una sintesi (più o meno tendenziosa...) tra est e ovest. La macchina da presa della Akerman, nell'assecondare la nera deriva autodistruttiva del protagonista, si concentra su dettagli molto circoscritti, e raramente rilevanti narrativamente, di un racconto che è perlopiù vertiginosamente sintetizzato e compresso da rade ma lunghe battute dei personaggi, più declamate che recitate. Su questi “brandelli scelti”, la Akerman scatena la sua fantasia geometrica, creando pezzi di cinema e virtuosistici pianisequenza spesso di grande fascino, ma che recano su di sé il pesante sospetto di essere fini a se stessi e di non portare a granché. Forse, tuttavia, a qualcosa portano. Talvolta, questi arzigogoli rococò in mezzo alla giungla (carrellate rettilinee e “chirurgiche”, simmetrie grafiche, armonie spigolose di linee ed angoli, arguzie di messa in scena al limite del balletto) si sporgono sul vuoto, si bloccano attoniti, indugiano spaesati in tempi morti, interrompono la loro “gloria” visuale quasi colti loro stessi da un attacco improvviso di malaria. In questo senso, dal film trapela un po' della crisi dello sguardo occidentale a confronto con una realtà che gli sfugge; l'impossibilità degli occhi di organizzare il mondo davanti a sé ingabbiandolo nella selva di linee che da essi si dipartono, ovvero quella prospettiva centrale con cui l'uomo (occidentale) si è fatto centro di un globo pronto così alla conquista. Ecco: questo tentativo di installare ad ogni costo una geometria, qui, vacilla, ed è in fondo un buon correlativo del vacillare di ogni tentativo di colonizzazione da parte dell'occidente (tema oggi particolarmente bruciante). Nel complesso però si tratta di un film fascinoso come può esserlo, che so, un film di Teresa Villaverde o di qualche altro portoghese minore, un film bizzarro che brancola nel buio, armato solo di squadra, riga e goniometro.
09:09:2011 |
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