
Il film inizia con una serie di primissimi piani sul cadavere di un uomo
cui sono stati tolti gli occhi e tagliate le mani, mentre alcuni insetti
descrivono traiettorie incerte attorno alle ferite, e la luce che pervade
l'ambiente è bluastra e il corpo di un bianco livido e freddo e potremmo
trovarci tranquillamente in un film di David Fincher. Dopo lo sguardo
attonito di un investigatore, seguiamo la cinepresa nel movimento verticale
che ci porta sopra le montagne di Guernon, Francia, ove alcuni sorvoli
sul luogo di un ritrovamento, conducono lo spettatore verso il centro
della storia. Il corpo mutilato era stato lasciato tra le rocce, a considerevole
altezza, a mo' di segnale o di avvertimento. La cinepresa sale ancora
con un movimento finale alto-basso, da terra a cielo.
Il film potrebbe finire qui, dopo un prologo che mette in campo il buono,
e cioè l'ambientazione perlomeno inusuale, e il meno buono, ovvero quel
senso di perversione codificata e molto disegnata, quasi da sfilata d'alta
moda del crimine hi-tech, che si esprime attraverso ritualità kitsch utili
a farci immaginare chissà quali percorsi mentali deviati e uno sviluppo
della storia denso e complesso. Mentre si tratta di trappole in cui far
cadere l'attenzione labile dello spettatore mediamente distratto per distrarlo
ulteriormente. Ora siamo scesi tra gli alberi e osserviamo un attore scelto
per la parte del commissario non troppo arguto darsi da fare all'inizio
dell'indagine: chissà perché, ma qualcosa ci dice che il poliziotto stolto
si lascerà sfuggire di mano l'inchiesta e siamo un po' irritati e abbiamo
la sensazione che stia per arrivare il deus ex-machina. Magari grosso
e impacciato e con qualche buco nel passato, tipo che adesso lavora per
conto suo e non saprai mai perché e, siccome il film è francese, pensi
che possa essere Jean Reno e scopri che è proprio lui! E ti immagini i
silenzi carichi di significati e il probabile collega più giovane sempre
un po' in ritardo nelle deduzioni e i modi bruschi fra i due, che alla
fine muteranno in affabilità e in amicizia nella scena finale.
Le cose si complicano un po' in mezzo, a dire il vero, perché gli omicidi
rituali diventano tre e coinvolgono l'università del luogo e il suo rettore
e indizi sparsi qua e là ci fanno intuire parecchio. Alcuni personaggi
si smascherano da soli e accentuano quella sensazione sgradevole che il
film voglia arrivare al più presto alla conclusione, incerto un paio di
volte se prendere la strada della denuncia o perlomeno del politically
correct (imbarazzante la visita al "covo" dei naziskin, appesantita dal
più inutile omaggio al kung-fu che si sia mai visto al cinema e unico
momento in cui la colonna sonora abbandona l'orchestrazione sinfonica
tra Bernard Hermann e Dario Argento, a favore di un techno pop anonimo
e il tutto è una palese concessione alle esigenze promozionali dei trailer
televisivi).
Lo spazio filmico bipartito si organizza tra la catacombalità dell'edificio
universitario e le vette ghiacciate, il che avrebbe potuto anche rappresentare
una scelta inconsueta, quando invece va definendosi uno spartito di scelte
di regia cui avremmo associato un linguaggio più terso e secco, invece
delle continue riprese dal basso negli interni della biblioteca (citazione
di INFERNO di Argento???) e dei gratuiti giri a 360 gradi attorno a Vincent
Kassel - l'investigatore giovane - nelle scene all'aperto (sembra di essere
in LA HAINE, ma lì lo stile seguiva una storia cinetica ed estrema). E
poi altre incertezze di registro e salti affrettati nell'horror quando,
sempre con la cinepresa dal basso e sempre compressi in uno spazio asfittico
e cupo, siamo in una cella di convento e Dominique Sanda versione Belfagor
ci inquieta per ragioni diverse da quelle sperate dall'improvvido Kassovitz.
O l'assassino che corre i cento piani con indosso una cerata presa in
prestito da SCREAM, mentre mille dettagli delle scarpette da ginnastica
pongono fine ai dubbi anche dello spettatore meno dotato.
Vorremmo anche sapere come si spiegano alcuni buchi nella sceneggiatura
e, in particolar modo, perché non viene chiarito l'aspetto "oftalmologico"
della faccenda: Fanny la scalatrice ci vede poco (ma allora come fa a
condurre quella vita?), sua madre ha gli occhi bianchi, il chirurgo degli
occhi viene ucciso perché anni prima ha effettuato operazioni inserite
in un quadro di riproduzione di esseri superiori, ma, letteralmente, certe
cose che dovevano essere chiarite non sono proprio dette.
Kassovitz spreca quel po' di talento che aveva per risarcire se stesso
e la casa di produzione dopo i disastri di ASSASSIN(S) e, praticamente,
si sacrifica con indifferente cinismo sull'altare del prodotto commerciale
pieno di stereotipi del genere investigativo e di stravaganti divagazioni
citazionistiche.
Voto: 22/30
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