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L’incipit, in sostanza, che racchiude il significato del film: uno schermo televisivo con una delle scene finali del film con Barbara Stanwick La fiamma del peccato che riflette il volto ed il corpo nudo di una donna distesa sul letto. Si parla di Femme Fatale, di quella immagine estremizzata di una donna che cattura nella sua rete tutte le persone che la circondano, le utilizza e poi le elimina a suo piacimento: una vedova nera, sexi, viziosa, astuta, tenebrosa. Ma se si ritorna al frammento iniziale di La fiamma del peccato, possiamo vedere che De Palma ha scelto di farci vedere la Stanwick che spara ad un uomo, non lo prende e lui, avvicinandosi e provocandola, la abbraccia. Il resto è lo svolgimento della storia, in cui le coincidenze si moltiplicano esponenzialmente alla cattiveria della protagonista, che riesce a scappare con i diamanti di un corpetto di Chopard indossato dall’amica di un regista durante il Festival di Cannes 2001, ingannando in sequenza i suoi complici, la famiglia della donna a cui ruba l’identità, un uomo importante che la sposerà e diventerà l’ambasciatore degli Stati Uniti in Francia, un fotografo che la metterà nei pasticci scattandole una foto. Si diverte, De Palma, con un personaggio femminile bellissimo e cattivissimo, insopportabilmente antipatico, tanto che alla fine lo spettatore si sente sollevato insieme a Banderas agonizzante sulla fine della donna. Ma non è finita, un po’ perché l’impronta Hitcockiana del regista arriva a spezzare la storia fin troppo favolistica, un po’ perché, appunto, di donne così estremizzate ce ne sono davvero poche. E poi, di nuovo, l’incipit. Perché è vero che questa donna è cattiva ed abile nell’inganno, ma rimane invischiata nelle sue stesse macchinazioni e ricevendo le redini del proprio destino, inverte la rotta. Sul piano stilistico, forse decisamente datati, abusati ed ormai troppo televisivi gli split-screen che sostituiscono i raccordi dello sguardo. Pensando poi a Blow-out, qui De Palma riprende il tema di Blow-up di Antonioni,lo inserisce in una storia diversa ma in cui ugualmente il fotografo diventa l’occhio che disturba il racconto, quasi in un possibile seguito del film sul suono cinematografico con Travolta… La regia è costituita da campi lunghi, slow motion, forse un po’ troppo patinata e televisiva, con giochi di luce che abbagliano, come nel finale anch’esso favolistico. Il tutto risulta un dèjà vu, ma precisamente come nelle intenzioni del regista.
Da ri/vedere. Voto:26/30 19.06.2003
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