faust

di Aleksander Sokurov
con Johannes Zeiler, Anton Adasinskiy
e con Isolda Dychauk, Hanna Schygulla

di Marco Grosoli

 

30/30

 

Bastano i primi secondi, quel vertiginoso movimento di macchina che dall'alto delle nuvole scende dolcemente ma inesorabilmente dentro il villaggio di Faust, incontrando bizzarramente uno specchio che penzola dal cielo appeso a un filo, a farci capire che decisamente non siamo più dalle parti di Alexandra. In quest'ultimo, Sokurov aveva cominciato a sperimentare il modo in cui percorrere estensivamente uno spazio, anziché rapprenderlo (come in molti suoi film precedenti) in una tela pittorica che sullo schermo e alla luce del cinema non cessava mai di liquefarsi in mille maniere. Che il film del 2007 fosse poco più di una tappa interlocutoria e preparativa, ce lo conferma tutto il resto (due ore e passa) di questo Faust, la cui cifra stilistica più mozzafiato (e ce ne sono tante) è appunto il movimento: il set (un villaggio tedesco sei-settecentesco) viene percorso e ri-percorso affannosamente, calcato in lungo e in largo da attori e macchina da presa che, non di rado, accavallano il proprio percorso, sbattono gli uni contro gli altri, aggrovigliano disordinatamente i loro tortuosi percorsi polverizzandoli in un goffo brulichio gestuale che sta da qualche parte tra il grottesco e il teatrale (il primo soprattutto).

Perché soprattutto di fisicità si tratta. E del limite in cui la fisicità non si lascia più riconoscere come tale, ma come qualcosa che confina pericolosamente con l'informe. Immediatamente, dopo l'iniziale "caduta" sulla terra, la macchina da presa indugia su un abborracciato tentativo di autopsia, e su medici che, tutt'intorno, guardando un ammasso scomposto di viscere e carni morte, si chiedono dove mai sia l'anima. Che essa "non esista", insieme è e non è la risposta del film. Il quale è, a conti fatti, un corpo a corpo con il diavolo/usuraio, che si attacca al povero Faust per assecondare maliziosamente la sua voglia di "trascendenza". Sui possibili usi di questa parola, si gioca interamente questa liberissima trasposizione dal monumento letterario goethiano. Mefistofele si illude di condannare Faust alla disperazione portandolo al cospetto del Nulla maiuscolo che lo attende una volta soddisfatta la propria voglia di sottrarsi al tempo (l'amore sublime con Margherita). Ma si sbaglia: strada facendo, ovvero dopo essersi immerso in un abbagliante viaggio sensoriale dentro un mondo in gagliarda e perpetua decomposizione, Faust capisce che il nulla è minuscolo, e che il fatto che non ci sia trascendenza, più che essere una tremenda condanna, andrebbe localizzato in ogni piega di ciò che esiste, nel limite stesso della materia: il trascendente non è al di là, ma è la soglia estrema dell'immanenza, la sua endemica, inevitabile inconsistenza. D'accordo, non c'è anima, non c'è trascendenza né null'altro del genere, ma questo stesso "non esserci" ha una concreta esistenza lì, in quel punto interno alle pieghe del visibile dove la sua consistenza sembra svanire.

A queste pieghe, soprattutto, si dedica Sokurov. Non "fa un quadro" (come i mediocri alla Greenaway), ma ci piazza dentro un quadro, tanto dentro da non vedere più i contorni o la totalità delle figure, tanto dentro da sentirci impiastricciati di colori ad olio, da non vedere più dove sia la cornice, da farci vedere abbozzi mozzafiato di luci, linee e colori, lacerti disordinati e folgoranti di un dipinto che sembrerebbe stupendo se solo ci fosse data la possibilità di vederlo tutto dalla dovuta distanza. Sentiamo che questo "super-quadro" c'è, ma siamo troppo dentro di esso per poterlo vedere. Sokurov riveste tutto di una luce soffusa, aspra, marroncina e verdastra, e la modula con strepitosi risultati visuali, tendendo a dissolvere i contorni delle cose in una impalpabile nebbia. Decentra il punto di vista della sua macchina da presa disperdendolo in una congerie di pennellate, anzi di vere e proprie "carezze" assestate timorosamente su una materia pulsante che non vuole saperne di stare ferma. Si lascia andare a eccezionali parentesi di puro incanto visivo (il tuffo nel lago di Faust e Margherita abbracciati... il vino che prende a zampillare dal muro della taverna...), sottolinea i momenti più emotivamente carichi per mezzo di distorsioni anamorfiche e obiettivi deformanti, lascia che le violazioni della verosimiglianza (gli sparuti e ballonzolanti diavoli alla Hieronimus Bosch, il pene di Mefistofele in fondo alla sua schiena anziché davanti) si rendano visibili con assoluta, quasi inavvertibile discrezione invece di farli prorompere col fragore cui sarebbero destinati. Come fossero la cosa più normale del mondo.

È il grandioso spettacolo del nulla che salva Faust dal Nulla (non sulla desolazione del deserto ghiacciato si posa il suo occhio, ma sulla meraviglia del geiser ribollente): per questo Sokurov si concentra sullo sfilacciarsi dell'esistente, e sui bagliori visuali che ne tralucono. Il diavolo potrà anche ammaliare Wagner, assistente di Faust prigioniero del suo volersi sostituire a Dio creando un ributtante succedaneo di uomo (un mostruoso homunculus). Ma Faust no, perché sostituirsi a Dio non gli interessa, come a Sokurov non interessa "farsi pittore", nonostante l'assoluta maestria pittorica di qualunque sua inquadratura. Dio non c'è, come non c'è quel suo stretto parente che è il valore monetario che fonda la professione terrena di Mefistofele (l'usuraio), oppure quell'altro suo ugualmente invisibile fratello che è il significato: che diavolo vorrà mai dire "in principio era il verbo", si chiede ripetutamente Faust. Sokurov gli risponde così: il verbo è solo in principio, dopo di lui non c'è più, non c'è un "senso" a cui esso rimanderebbe, ma la sua pura e semplice decomposizione. E infatti, il testo goethiano è volutamente massacrato, trasformato in un profluvio incontrollabile di citazioni a cui non si dà nessun peso che non sia solamente aereo, volatile. Le parole di Goethe si sciolgono come neve al sole, accalcate l'una dopo l'altra come un mormorio senza inizio né fine. Nemmeno lui, nemmeno il verbo può pretendere un "al di là", un significato a cui rimanderebbe. È solo materia in decomposizione, come tutto il resto, e che come tutto il resto manda bagliori subito sepolti dai cascami di altra materia, di altre parole.

Perciò Faust non si fa ingannare. Della trascendenza, non si cura più. Proprio perché non c'è nessuna meta, bisogna senza posa andare, andare, andare, e ancora andare... Facendosi strada tra le inattese meraviglie della luce che fanno ancora, del nostro inferno sulla terra, un paradiso. Ce lo disse Goethe, ce lo ripete Sokurov più di una volta: l'infelicità è pericolosa.

 

07:09:2011

prima pubblicazione mostra del cinema di venezia 2011

faust

Regia Alexsandr Sokurov

Russia 2011, 134'
Archibald Film

DUI: 30/09/2011

Drammatico