ESSENTIAL KILLING

di Jerzy Skolimowski

con Vincent Gallo, Emmanuelle Seigner

Premio Speciale della Giuria

di Marco GROSOLI

 

30/30

 

Un uomo (Vincent Gallo) corre, scappa in un paesaggio desertico. Poi viene beccato, riscappa, e ricorre in paesaggi innevati. Dialoghi, mai. Flashback saltuari e sbrigativi ci dicono che si tratta di un terrorista musulmano. Una donna sordomuta lo soccorre nella sua casa e gli dà un cavallo. Poco dopo, vediamo camminare solo il cavallo. Fine del film.

Di “killing” se ne vede poco: si tratta piuttosto di un incessante e interminabile morire. L’aggettivo “essential”, però, viene in mente ad ogni istante. Perché la grandezza di questo film (del sempre immenso Jerzy Skolimowski) sta nel prosciugare tutto affinché rimanga solo lo scheletro della situazione. La sopravvivenza nel mondo. Punto e basta.

Anzi no: punto a capo. Perché questa essenzialità stessa è inseparabile dall’idea di residuo – idea che la forma filmica adottata da Skolimowski rende alla perfezione. La sopravvivenza si riduce al movimento continuo, alla fuga inarrestabile, ma qualcosa rimane negli occhi. Skolimowski non dà una forma al movimento, ma fa del movimento una forza che trascina con sé una molteplicità perennemente inadeguata di punti di vista che si appoggiano su di esso. Essential killing, nel suo ridursi sempre e solo al movimento, non può che risultare un film astratto – ma il suo stile di astratto non ha nulla, si caratterizza anzi per una prossimità “sporca”, intenzionalmente eccessiva, alla concreta materialità del set naturale. Il movimento diventa così una “grandezza negativa” che lascia filtrare momenti di tenerezza inusitata (con la donna muta nel finale – inusitata proprio perché freddissima e quasi impaurita), o di visionarietà inattesa (un burqa blu trasportato dalle acque di un ruscello, poco prima dell’apparizione, di una donna che lo indossa).

Il movimento, insomma, non come una forza continua, ma come un qualcosa di inquantificabile che giunge all’evidenza solo attraverso le discontinuità, i “buchi” che si ritrova ad oltrepassare. Per questo il protagonista non muore, se non fuoricampo; la sua morte è consegnata a ciò che materialmente componeva la sua “vita”: i buchi, le ellissi, gli strappi. Una morte fuoricampo che non può non ricordare la morte fuoricampo dell’eroe dell’ultimo film di Polanski, con cui il film sembra ingaggiare un confronto serratissimo: la donna muta del finale è l’ex moglie di Polanski Emmanuelle Seigner, c’è un navigatore che fa il paio con quello di The Ghost Writer… ma soprattutto, il fuggiasco di Essential Killing sembra un doppio del Pianista, monumentalizzazione della figura dell’ebreo errante, del residuo marginale rispetto all’identità.

Ecco: Skolimowski sembra riprendere questo mito dell’ebreo come l’”antagonista resistente” per eccellenza, al fine di strapparlo anche a questa determinazione (è musulmano!) – anzi, i flashback che spiegano il passato del fuggitivo sono così sbrigativi e “tirati via” da essere niente più che l’incarnazione stessa del disprezzo manifesto (o della trascura deliberata) delle determinazioni. E così, fa di questa figura “quasi vuota” e perennemente “quasi sterminata” una forma in movimento (cattolicamente) universale.

 

11:09:2010