da 61ma mostra del cinema di venezia

EROS

di Michelangelo Antonioni, Wong Kar-Wai, Steven Soderbergh
Film a episodi

di Marco GROSOLI

 

Altra opera a episodi, APERTA per definizione dunque. Wong Kar-Wai non si sforza nemmeno tanto così di variare il modulo che ha consacrato In the mood for love. Filma la storia di un sarto che vede una sua cliente solo poche volte in svariati anni, ma lungo tutto il tempo si mantiene attaccatto affettivamente, nonostante tra i due non incorra che un paio di fugaci masturbazioni. Il sublime narcisismo stilistico di Wong stavolta ha il fiato un po' corto. Il suo episodio è bello, ma imbalsamato nel già visto (racconto a tappe diacroniche, movimenti di macchina e uso del colore -e degli spazi- di sfacciato lirismo, pochi incontri tra i protagonisti che si vedono più spesso da soli). L'emozione latita, e anche l'indimenticabile malinconia del penultimo lungometraggio manca, soffocata da un impianto espressivo impeccabile ma troppo tentato dalla freddezza (schivata invece in maniera sottilissima in In the mood for love). Migliore, per quanto non entusiasmante, il frammento di Soderbergh. Con ottima intuizione, il regista statunitense decide che, trovandosi per le mani una striminzita mezz'oretta, la cosa migliore da fare è segmentarla ulteriormente. Come accade in molti suoi film, anche questo è suddiviso in parti parallele che si contraddistinguono per grana e scelte cromatiche. E' la storia di un pubblicitario alle prese con un difficile slogan da inventare per una sveglia e una buona dose di incertezze coniugali. Mix che gli fa consultare un bizzarro psichiatra che mentre ascolta i suoi sfoghi sbircia
fuori dalla finestra con un cannocchiale e lancia aeroplanini di carta. Il sonno, la veglia, il sogno, la seduta psicanalitica, la realtà (ognuno con un  "colore" e una grana diversi) si intrecciano. Anzi, come spesso nei film di Soderbergh, i vari strati paralleli di realtà si travasano reciprocamente e inestricabilmente. Nulla di nuovo dunque, e questo è il difetto principale. Però c'è maggior chiarezza rispetto a quanto succedeva in diverse altre opere del regista.
Antonioni firma invece il pezzo di cinema più straordinariamente sottovalutato della Mostra, che fa giustizia di equivochi grossolani tipo "Il regista dell'alienazione e dell'incomunicabilità" già falsi cinquant'anni fa. Tutti lì a fischiare e a imprecare contro la poca sostanza dei dialoghi e dell'interpretazione -come se negli altri film del regista ferrarese questi elementi avessero avuto un peso preponderante, figuriamoci. La verità è che l'incedere labirintico, dolente e sporco della macchina da presa, insieme alla conturbante (almeno per occhi non prevenuti) opacità delle location scelte, sono rimaste intatte e antonioniane fino al midollo. Chi se ne frega dello spessore inesistente dei personaggi, Antonioni rimane uno dei pochi al mondo che può permettersi di usare la macchina da presa come una penna stilografica disinteressandosi del resto. Questo suo segmento è un processo di pulizia finale del proprio cinema, sempre più astratto (vedere il rarefattissimo Identificazione di una donna, una delle sue opere più recenti) fino a diventare un leggerissimo arabesco. Non è, come hanno equivocato in tantissimi, ricerca di poesia facile e imbarazzante, è dissoluzione della pesantezza dello stare del mondo (così bene espressa dalla sua macchina da presa negli anni 50, 60 e 70) in danza, trasformazione del movimento da testimonianza del dolore e del caos in scrittura aerea della leggerezza. Il Nulla raggiunge la redenzione e diventa Vuoto, spazio pneumatico teatro della danza sulla spiaggia che chiude il film e dà un nuovo senso a un'intera filmografia.
 

Voti singoli: 25/30, 26/30, 30/30
Voto Complessivo: 27/30

10:09:2004


::: altre recensioni :::