
Altra opera a
episodi, APERTA per definizione dunque. Wong Kar-Wai non si sforza
nemmeno tanto così di variare il modulo che ha consacrato In the mood for love. Filma
la storia di un sarto che vede una sua cliente solo poche volte in svariati
anni, ma lungo tutto il tempo si mantiene attaccatto affettivamente,
nonostante tra i due non incorra che un paio di fugaci masturbazioni. Il
sublime narcisismo stilistico di Wong stavolta ha il fiato un po' corto. Il
suo episodio è bello, ma imbalsamato nel già visto (racconto a tappe
diacroniche, movimenti di macchina e uso del colore -e degli spazi- di
sfacciato lirismo, pochi incontri tra i protagonisti che si vedono più
spesso da soli). L'emozione latita, e anche l'indimenticabile malinconia del
penultimo lungometraggio manca, soffocata da un impianto espressivo
impeccabile ma troppo tentato dalla freddezza (schivata invece in maniera
sottilissima in In the mood for love).
Migliore, per quanto non entusiasmante, il frammento di Soderbergh.
Con ottima intuizione, il regista statunitense decide che, trovandosi per le
mani una striminzita mezz'oretta, la cosa migliore da fare è segmentarla
ulteriormente. Come accade in molti suoi film, anche questo è suddiviso in
parti parallele che si contraddistinguono per grana e scelte cromatiche. E'
la storia di un pubblicitario alle prese con un difficile slogan da
inventare per una sveglia e una buona dose di incertezze coniugali. Mix che
gli fa consultare un bizzarro psichiatra che mentre ascolta i suoi sfoghi
sbircia
fuori dalla finestra con un cannocchiale e lancia aeroplanini di carta. Il
sonno, la veglia, il sogno, la seduta psicanalitica, la realtà (ognuno con
un "colore" e una grana diversi) si intrecciano. Anzi, come spesso nei
film di Soderbergh, i vari strati paralleli di realtà si travasano
reciprocamente e inestricabilmente. Nulla di nuovo dunque, e questo è il
difetto principale. Però c'è maggior chiarezza rispetto a quanto succedeva
in diverse altre opere del regista.
Antonioni firma invece il pezzo di cinema più straordinariamente
sottovalutato della Mostra, che fa giustizia di equivochi grossolani tipo
"Il regista dell'alienazione e dell'incomunicabilità" già falsi cinquant'anni
fa. Tutti lì a fischiare e a imprecare contro la poca sostanza dei dialoghi
e dell'interpretazione -come se negli altri film del regista ferrarese
questi elementi avessero avuto un peso preponderante, figuriamoci. La verità
è che l'incedere labirintico, dolente e sporco della macchina da presa,
insieme alla conturbante (almeno per occhi non prevenuti) opacità delle
location scelte, sono rimaste intatte e antonioniane fino al midollo. Chi se
ne frega dello spessore inesistente dei personaggi, Antonioni rimane uno dei
pochi al mondo che può permettersi di usare la macchina da presa come una
penna stilografica disinteressandosi del resto. Questo suo segmento è un
processo di pulizia finale del proprio cinema, sempre più astratto (vedere
il rarefattissimo Identificazione di
una donna, una delle sue opere più recenti) fino a diventare un
leggerissimo arabesco. Non è, come hanno equivocato in tantissimi, ricerca
di poesia facile e imbarazzante, è dissoluzione della pesantezza dello stare
del mondo (così bene espressa dalla sua macchina da presa negli anni 50, 60
e 70) in danza, trasformazione del movimento da testimonianza del dolore e
del caos in scrittura aerea della leggerezza. Il Nulla raggiunge la
redenzione e diventa Vuoto, spazio pneumatico teatro della danza sulla
spiaggia che chiude il film e dà un nuovo senso a un'intera filmografia.
Voti singoli: 25/30, 26/30,
30/30
Voto Complessivo:
27/30
10:09:2004 |