
Pare che il regista e sceneggiatore Gus Van
Sant abbia scelto il titolo del film affascinato da un’antica parabola zen:
l’uomo bendato esamina l’elefante tastandone ogni singola parte, ma non
riesce a determinarne la natura.
Una parabola che racchiude in un semplice concetto il pensiero di Van Sant
in merito a quello che è oggi uno dei talloni d’achille della società
moderna americana: la violenza giovanile unita al libero commercio delle
armi da fuoco. Un tema delicatissimo, già affrontato un anno prima, in
chiave documentaristica, da Michael Moore con
Bowling a Columbine (2002).
Perché, dopo gli interminabili dibattiti televisivi, le analisi
socio-psicologiche, e i tentativi pratici messi in atto dal sistema
americano, la ferita è aperta e sanguinante più che mai? Perché, pur
scomponendo il problema in tanti piccoli segmenti e analizzandoli pezzo per
pezzo, il miraggio di una soluzione resta ancora così lontano? Queste le
domande che Van Sant si pone nel suo ultimo lavoro, palma d’oro e miglior
regia al Festival di Cannes 2003. Domande che non cercano vittime né
carnefici. Domande che il regista riesce a plasmare e modellare in 81
minuti, dando forma a un autentico capolavoro.
Emblematico e minimalista, Elephant
racconta lo svolgimento di una consueta giornata di scuola a Portland, nel
nord-ovest degli Stati Uniti. E lo fa attraverso gli occhi dei suoi
protagonisti. John, ossigenato ed efebico, maturato troppo in fretta a causa
di un padre dipendente dall’alcool. Eli, pacato e riflessivo, aspirante
fotografo. Michelle, bibliotecaria bruttina e fuori forma, emarginata dalle
sue compagne di corso. Nates, quarterback della scuola, desiderato da tutte
le ragazzine ma innamorato di Carrie. Brittany, Jordan e Nicole,
superficiali votate al culto dell’estetica, insoddisfatte delle proprie
madri. E poi Alex ed Eric, due fratelli taciturni, estraniati dal contesto
familiare e scolastico nel quale si trovano.
Gente normale insomma, con delle paure e dei sogni, riunite in una giornata
ancor più normale e anonima. Che alla fine si rivelerà tutt’altro che tale.
Van Sant è magistrale nel rendere la quotidianità attraverso i dialoghi,
essenziali ma mai noiosi, e la capacità di utilizzare la cinepresa come
sguardo (anche prospettico) dei protagonisti è sorprendente. Le ripetute
soggettive ci proiettano nei corridoi e nelle aule della scuola dandoci la
sensazione di guardare ciò che ci accade attorno a 360 gradi. Sensazione
resa in buona parte dalla “verginità” cinematografica del cast (non a caso i
nomi dei protagonisti sono gli stessi degli interpreti). È fuor di dubbio
che l’utilizzo di attori noti al grande pubblico avrebbe tolto alla
pellicola quella spontaneità indispensabile.
Contrariamente al documentario di Moore,
Elephant vuole che a farci
riflettere siano i brividi da pelle d’oca e non le informazioni
politico-sociali; vuole scuotere e colpire dove fa più male: nella nostra
routine, nelle emozioni e nei piccoli gesti che commettiamo ogni giorno
senza prestarvi attenzione, quasi meccanicamente. Perché è nella nostra
quotidianità che se urtati barcolliamo confusi, dimenandoci, sforzandoci di
cercare un senso, una via d’uscita. È questo il nervo scoperto che Van Sant
sfiora sapientemente, accompagnandoci per i tre quarti del film lungo i
luminosi corridoi della scuola, introducendoci a John ed Eli come un amico
premuroso…per poi lasciarci soli e indifesi in balìa di una situazione che
un senso non ce l’ha. Improvvisamente le nostre certezze crollano, sentiamo
solo il nostro battito aumentare, le gambe appesantirsi per la paura, il
fiato farsi più affannoso. Siamo tesi come corde di violino, pronti a
vibrare. Poi gli spari, le urla, il panico…fino a che è di nuovo quiete. Ma
una quiete che ci avrà cambiati. Per sempre.
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Voto: 29/30
05.11.2003
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