DON'T SAY A WORD
di Gary Fleder
con Michael Douglas e Sean Bean



Nathan Conrad, psichiatra newyorchese di chiara fama e consolidato successo, si divide tra gratificazioni professionali e gioie private, uno studio prestigioso nell'Upper West Side ed una famiglia lucida come uno spot televisivo. Le piene giornate di lavoro finiscono tra le braccia di una moglie bellissima ed innamorata mentre le mattine piene di luce iniziano con il bacio di Jessie, la sua strepitosa bambina di otto anni. La serenità di chi ha avuto tutto dalla vita viene improvvisamente sconvolta ed annientata dall'atto più invasivo e violento che uomo possa subire: il rapimento di un figlio. Alla vigilia della festa del ringraziamento, momento di solidarietà ed orgoglio nazionale per tutti i "buoni americani" del grande schermo, Nathan viene interpellato per un consulto d'urgenza dal Dr Louis Sachs, psichiatra forense dell'Istituto di Bridgeview, che gli chiede aiuto per un caso disperato. Elisabeth Burrows, una ragazza traumatizzata da un decennio di ospedalizzazioni coatte, perduta nel labirinto di cure e diagnosi errate, rinchiusa in un mondo artefatto di sensi obnubilati, sindromi maniaco depressive e stati catatonici di assenza ed alienazione, rischia di essere incatenata al letto di una casa di assistenza statale per il resto della sua vita. L'incontro con la paziente è fulminante e risveglia in Nathan quella grande passione che lo aveva spinto in gioventù a dedicarsi allo studio della mente e dei suoi misteri, quegli ideali che carriera e denaro avevano posto da anni in secondo piano. Il rapimento della piccola Jessie metterà in luce un legame insospettato tra un ermetico messaggio sepolto nella mente perduta di Elisabeth e la vita di Nathan. Per salvare la figlia, infatti, lo psichiatra dovrà recuperare dal passato traumatico della sua paziente un numero a sei cifre, che è al tempo stesso chiave del mistero e svolta nella guarigione, e risolvere una sciarada dispersa nelle pastoie del tempo, custodita come prezioso tesoro da una guardiana ormai disfatta dalle medicine, senza più forze o volontà. Il film, tratto da un libro di Andrew Klavan vincitore del premio EDGAR WRITERS OF AMERICA per il miglior romanzo giallo dell'anno, non riesce a mantenere il ritmo incalzante ed implacabile del libro per la perdita, nella trasposizione cinematografica, di quella prosa vivida che, ancor più della struttura articolata in piani paralleli o parzialmente sovrapposti, faceva la forza di un intreccio rivelato passo dopo passo dall'intuizione. Rimane interessante lo spunto che, per vincere l'ineluttabilità di un destino di tragedia che sembra segnato, Nathan debba percorrere ed affrancare gli incubi più radicati nell'immaginario collettivo ed individuare i simboli capaci di ricondurre a concretezza un grido di paura per sua natura intangibile. L'universo della follia viene visualizzato nelle sue tappe di reclusione e morte ed ha l'aspetto tetro ed algido di un ospedale psichiatrico così come la lugubre destinazione della sconfinata distesa di croci di un cimitero. Si tratta di un thriller di confezione classica e caratura mediocre che, nonostante l'argomento profondo e le intenzioni ambiziose, non riesce a giustificare la concatenazione degli eventi che si susseguono, lenti e scontati, secondo un ritornello sentito tante volte. Troppo immediato appare il successo di Nathan nel penetrare l'armatura di diffidenza e patologia della sua paziente, affrettata l'immedesimazione di Elisabeth nel destino della bambina rapita così come immotivata l'accettazione del sacrificio da parte di una persona così forte e disperata da scegliere il manicomio pur di proteggersi. Il confronto col passato, indotto da Nathan, assecondato da Elisabeth, si dimostra catartico e lenitivo, foriero di salvezza e salute per tutti i personaggi coinvolti in una vicenda orrorifica di violenza e vendetta. Michael Dougales, nella parte di Nathan, punta al prodotto di intrattenimento leggero giustificando, con la sua sola presenza e l'accattivante capacità di catturare la luce nel solco profondo delle sue rughe, un film che non brilla per forza emozionale e che dimostra come il regista, Gary Fleder, trovasse maggior ispirazione nelle atmosfere pulp e grottescamente umoristiche del suo precedente e plauditissimo COSA FARE A DENVER QUANDO SEI MORTO piuttosto che in un contesto più artatamente commerciale con presunzioni da giallo psicologico alla Alfred Hitchcock come il presente.

Voto: 21/30

Elisa SCHIANCHI
10 - 04 - 02


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