
Essere ed esseri in quarantena dal mondo. La possibilità narrativa delle
sole immagini. Il valore dell'onore anche nell'universo privato dei sentimenti.
La presenza della fine in ciascun inizio. Il tempo della tragedia. Il
tempo dell'amore reso eterno.
Il ricatto e il suicidio come forme di dialogo tra amanti.
La forma. La parola che diventa forma. Il racconto come silenzio. Difficile
scommettere su quanti si siano accorti del nuovo modo di fare cinema di
Takeshi Kitano, che in realtà sintetizza un decennio di meditazione estetica
e che tale meditazione, quasi un rito d'iniziazione, adesso porta al suo
massimo risultato, con la decisione e la sicurezza di un samurai delle
arti figurative.
Costoro sono pochi. Eppure avrebbero dovuto accorgersi che nulla è cambiato
e tutto, allo stesso tempo, va ribaltandosi sul piano di tale orizzonte.
L' impasse dell'azione nei personaggi kitaniani, spesso intesa come esito
di un nichilismo conseguente all'esperire le antitesi esistenziali purezza/dannazione,
onore/vendetta, amore/ morte, e preparatoria alla deflagrazione di una
violenza astratta liquidata come humour nero, è ancora presente in DOLLS,
ma come premessa, antefatto, punto di partenza -e quindi non risultato
di qualcos'altro- della storia o, meglio, di questo oggetto d'arte che
va sotto il nome di BAMBOLE.
L'essere dato a priori è dovuto al sapere già in partenza che ogni cosa
va a finire: la presenza della fine in ciascun inizio. I puppets di Kitano
sono più consapevoli dei personaggi di HANA Bl, BROTHER, VIOLENT COP.
Consapevolezza che li fa essere, per così dire, già morti in partenza,
incarnando essi varie idee di morte, disposti all'interno di un iperuranio
di segni scarnificati. Anche in DOLLS tutti, poi, i cosiddetti personaggi
muoiono fisicamente, organicamente: ma ciò accade come conferma, tangibile,
di una morte interiore che è nelle prime inquadrature e che rende inutile
l'approntamento di una qualche struttura narrativa.
Il film è un contenitore neutro all'interno dei quale, quindi, non c'è
sviluppo, ma continua esposizione di quel dato iniziale, che è poi la
premessa di tutto il cinema di Beat Takeshi, il che comporta anche assenza
di struttura temporale.
C'è un non-tempo che libera il regista da vincoli di ogni tipo, consentendogli
un uso straordinario di flashforward e flashback, micro e macro ellissi
temporali, come mai si era visto e non solo nel suo personale modo di
girare, ma in buona parte del cinema contemporaneo.
La produzione, come rivelato nell'intervista concessa alla nostra rivista,
ha dovuto frenare il regista dal tentativo di frammentare ulteriormente
la materia filmica con un' ulteriore serie di inserti apparentemente a-logici:
ma ciò che conta, qui, non è stabilire il tipo di testo o ipertesto di
fronte al quale ci troviamo, bensì di capire che il cinema ha, forse,
trovato una forma di "esposizione" di idee e concetti che riesce a prescindere
dalla sequenzialità, dai nessi logici, dai raccordi etc, senza peraltro
diventare pallida e inconsistente materia senza forma o, altrimenti, palestra
per scomposizioni e ricomposizioni dei blocchi narrativi, le quali, in
realtà, non riescono mai veramente a proporre valide alternative alle
modalità tradizionali del raccontare, perché in definitiva girano sempre
attorno ad esse senza sapersene liberare. In altre parole, DOLLS va oltre
Tarantino, Noè (…), ma anche oltre Greenaway e persino oltre Lynch.
Eppure è sempre Kitano, summa degli esordi e di certa materia più recente,
dove un altro modo di nominare "morte" è certamente "violenza", anzi essendo
DOLLS, a suo dire, il film più violento da lui mai girato, esplicitandosi
nelle varie facies amorose l'arte più alta della violenza, interiorizzata
o meno che sia.
E' dal titolo, poi, che occorre ripartire: siamo marionette del teatro
Bunraku da altri mosse, siamo precari proprietari di una corporeità devitalizzata
in partenza, in quanto contenente la propria antitesi -essere organico
uguale essere per la morte- e quindi già immesse nel grande ciclo, senza
sorriso, solo estaticamente fisse in uno sguardo che nulla, in realtà,
vede. Sawako ha in effetti uno sguardo che scivola sulla consistenza delle
cose materiali, rendendole inconsistenti.
Sawako è il personaggio chiave, il burattino attonito che lega le tre
storie apparenti, mentre rimane legata a chi ne ha tradito la promessa
di matrimonio, Matsumoto, unito a lei da una corda rossa che è già nodo
scorsoio.
Sawako ( Miho Kanno, di implacabile minimalista bellezza, già vista in
HYPNOSIS passato a Udine un paio di anni fa ) è l'emblema di BAMBOLE.
Come si vuole nel teatro Bunraku, S. è completamente mossa, azionata da
ciò che è altro da sé: l'amore che le proviene dal promesso sposo, cui
è legata "mani e piedi". Il suo irrigidirsi iniziale e il piegarsi finale
sul ramo stilizzato del primo finale del film ( che anticipa il secondo
momento di teatro Bunraku ) lega altre "storie" che storie non sono, perché
devitalizzate e private dello sviluppo cui accennavamo, come quella dello
yakuza che ritrova la "bambola" attonita di una fidanzata tradita, impegnata
nella coazione a ripetere, dopo decenni, lo stesso atto/rito del pranzo
nel parco, in attesa dell' innamorato che da un certo giorno non è più
tornato. Arduo, se non folle, parlare di prodotto estetizzante, dove la
sola ricerca cromatica è un pezzo d'arte a se stante e, allo stesso tempo,
aperta a chiavi di lettura al limite del simbolismo.
Voto: 30 e lode ( to be continued…)
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