
È difficile parlare di
Dogville a poche ore
dalla prima visione. Il primo capitolo della trilogia americana di
Lars Von Trier ha bisogno di quella giusta distanza che permette di
distinguere i numerosi livelli di cui è composto. Dogville è, senza
dubbio, un dramma di scrittura, che si allontana dall'elemento filmico
puro per spostarsi sul teatro (quello brechtiano) e sulla letteratura
(americana ed europea).
La feroce critica agli Stati Uniti di oggi (visti attraverso un occhio
europeo che filtra e moltiplica le ombre) si muove su due piani
coesistenti - quello contenutistico, l'ipocrisia borghese di una
comunità che isola ferocemente l'elemento estraneo per farne uno
schiavo - e quello puramente formale.
Il regista danese rinuncia al decor e alla scenografia classica,
optando per uno spazio unico dove gli ambienti sono delimitati da
perimetri dipinti, che accentuano la sensazione claustrofobica di
angoscia, e legando le scene con lunghi piani sequenza, spezzati
soltanto da brevi sequenze riprese dall'alto.Tutto è funzionale alla metaforizzazione del concetto di sadismo,
quello dell'immagine in primis, il concetto di cinema compresso e
seviziato, impoverito e ridotto ai suoi elementi di base, sebbene
girato in alta definizione.
L'ovazione del pubblico rende merito ad un'operazione interessante e
validissima, meno rivoluzionaria, forse, di altre sue precedenti-
sicuramente da rivedere, ripensare, interrogare.
Un'opera aperta, alla quale solo il tempo potrà assegnare il giusto
valore.
19.05.2003
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