django unchained

di Quentin Tarantino
con Jamie Foxx, Christoph Waltz

e con Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson

di Marco GROSOLI

 

30/Lode

 

Dov'eravamo rimasti?

Ah sì. Inglourious Basterds, il cinema che esplode, “gasa” i “gasatori”, stermina coloro che tentarono di sterminare l'eccezione (ebraica) e inaugura (al culmine storico di quella che fu la “classicità hollywoodiana”) la “società dello spettacolo” del tardo capitalismo che seguirà di lì a poco e che il film piuttosto chiaramente etichetta (la scarificazione dell'ultima scena) come “nazismo con altri mezzi”: quella società in cui mondo e immagine non sono più distinguibili, e l'eccezione scompare, sì, ma perché diventa la regola.

Siamo ora nel 1858. Di lì a poco, la guerra civile farà nascere la nazione che nel secolo successivo sarà il culmine indiscusso della “società dello spettacolo”. Una griffithiana “nascita della nazione”? No: piuttosto una “nascita del cittadino” che è tutt'uno con la “nascita dello spettatore”. Non solo non ci sono sale e pellicole da far esplodere, ma, verso la fine, un personaggio giocherella con una delle mille diavolerie “pre-cinematografiche” (un dispositivo che crea l'illusione del movimento giustapponendo due foto statiche, una che fa da “figura” e l'altra da “sfondo”) da cui, nel giro dei 30-40 anni a seguire, sarebbe nato il cinema.

La parabola emancipativa di Django, schiavo di colore riscattato da un cacciatore di taglie (King Schultz), e che riconquisterà la moglie da cui venne separato tempo prima, giocando d'astuzia e di forza nella magione di un grande proprietario terriero nella quale, con la complicità di Schultz, penetra in qualità di mercante di schiavi, viene presentata da Tarantino come inseparabile dalla parabola emancipativa dello spettatore. Quest'ultimo, infatti, fin dalle primissime battute del film e con chiarezza difficile da mancare (“Django, ora dovrai recitare una parte: devi entrare dal personaggio e non devi uscirne”), viene chiamato in causa da uno Schultz che, incarnando in qualche modo il regista, si fa guida maieutica della fusione tra lo spettatore e il protagonista. Lo spettatore, in buona sostanza, viene invitato da Schultz/Tarantino a incanalarsi nell'arcinoto canovaccio della Narrazione Classica Hollywoodiana: quello che al suo termine ha la “produzione della coppia eterosessuale”, con l'eroe che riconquista la bella. Non è un caso se Schultz, esule tedesco come molti di coloro che fecero grandi la Hollywood classica “filtrando” la tradizione europea dentro la Fabbrica Dei Sogni, riassume a un estasiato Django l'epopea della sua patria in maniera così brutale da confondersi con lo scheletro della sceneggiatura/tipo hollywoodiana: Brunnhilde (è così che si chiama l'amata di Django!) viene messa su una montagna con del fuoco intorno, e Sigfrido dopo mille peripezie arriva a salvarla.

Perché questa “maieutica dell'ABC di Hollywood”, tanto noto da destare il sospetto che appartenga più che altro al passato, oggi che il cinema è definitivamente esploso? Proprio perché il cinema non c'è più, “scioltosi” in tutti i gangli della realtà, è indispensabile tenere d'occhio il portato ad oggi più prezioso della grande narrazione hollywoodiana: ricordarci che i desideri, per esistere ancor prima di potersi realizzare, devono essere articolati in un Fantasma, in una fantasia di riferimento. E questa articolazione è un lavoro duro, che comporta guardare in faccia l'intollerabilità del nostro stesso godimento dell'azione (perno del cinema di Tarantino) e approdare a una gestione razionale di esso. Per questo, il nemico ultimo non sarà il “dragone” miliardario che tiene prigioniera la Bella, ma il suo servitore di colore, un Samuel L. Jackson che è straordinaria incarnazione di quella “negritudine” che per decenni di immaginario americano è coincisa (razzisticamente) col detenere un godimento che al soggetto “normale” (bianco) è costitutivamente negato. Incarnazione, insomma, del godimento “irresponsabile” perché fin troppo responsabile, complice della legge e dell'ordine da cui si vorrebbe lontano. Imparare a subordinare il godimento dell'azione alla paziente razionalizzazione da cui potrà risultare la fantasia che orienterà la propria vita: questo fa Django,  condotto per mano esattamente come lo spettatore nei meandri dello Spettacolo. Ed è per questa ragione che Tarantino, pur senza cedere di un millimetro in perizia coreografica, in gestione sapiente di un tempo in apparenza lento ma in realtà accuratamente ritmato, in inventiva visuale, firma il suo film indubbiamente più distillato, rigoroso, ieratico quasi. La sua regia è il piacere della disciplina al lavoro, quella stessa disciplina che Django impara per maneggiare la più potente delle armi: diventare il nemico dal quale stiamo provando a liberarci. Nulla è gratuito: nulla. Ogni scintilla è bilanciata dalla lucidità, e viene circumnavigata a 360° per esorcizzare quell'eccesso emotivo di cui dovrebbe constare, e convertita, da e per i nostri occhi, in esempio illuminista di ciò che di noi stessi non sappiamo controllare, e che è dannoso nascondere sotto il tappeto. Illuminista, sì: questa nuova ieraticità di Tarantino è un modo per ghiacciare sul nascere il godimento dell'immagine, per studiarlo come sotto alla lente di un microscopio. Perché mostrare allo spettatore le barre della gabbia in cui è rinchiuso è il primo, e forse l'ultimo, passo verso la libertà. Sì: si tratta proprio, come nel caso di quell'altro esule tedesco, per un po' anche in America, di straniamento.

L'esplosione del cinema (come quella del film precedente) non fa che rendere perpetuo il riproporsi della sua origine: vivere, significa non tanto essere spettatori, quanto saperlo essere.

django unchained
Stati Uniti 2013, 165'
DUI: 17/01/20132

Western