Django (Jamie Foxx) è un ex schiavo liberato dal dottor King
Schultz (Christoph Waltz), un cacciatore di taglie tedesco che necessita del
suo aiuto per trovare e uccidere tre brutti ceffi. Dopo aver imparato tutti
i segreti del mestiere, il nostro eroe agogna, con l'appoggio di King
Schultz, di ritrovare e liberare sua moglie Broomhilda (Kerry Washington),
prigioniera nella piantagione di Candyland, gestita da Calvin Candie
(Leonardo Di Caprio). Django e King Shultz dovranno quindi usare tutta la
loro astuzia e la loro sagacia per liberare la bella dalle grinfie del
mostro.
Nonostante non lo
ritenga né il suo capolavoro né alla stregua dell'assoluta genialità della
sua pellicola precedente (Inglorious
Bastards), Django Unchained ha il merito non solo di essere
spettacolare, spassoso ed elegante, ha la suprema qualità di riuscire in
maniera incredibile a fondere quattro miti insieme, quello del west, quello
dello spaghetti western, quello della lotta dei neri contro la schiavitù e
quello delle leggende teutoniche (nel caso specifico quello di Brunilde e
Sigfrido, di cui nel film si parla apertamente). Tutto questo senza sermoni,
sensi di colpa, barbose lezioni universitarie o recriminazioni storiche, ma
solo attraverso la magia della forma d'arte più completa concepita dall'uomo
sino a questo momento, il cinema. E la cosa ancora più interessante a mio
modo di vedere e che è un tedesco, nella storia in questione, la vera chiave
di volta di tutto questo. Un tedesco che unisce il meglio delle qualità
ormai scomparse della nostra cara vecchia Europa, ma che probabilmente
allora rappresentava, grazie all'illuminismo, alla filosofia kantiana e alle
lotte politiche, militari e culturali seguite alla rivoluzione francese e
poi alla restaurazione, la perla di una nuova visione dell'uomo. E così, con
il semplice personaggio di un film, l'intera cultura del vecchio continente
e quella tedesca in particolare, vediamo reincarnare le migliori idee che
abbiamo partorito, quelle di razionalità, senso dell'avventura, cultura
alta, romanticismo e comprensione che hanno portato il nostro continente ad
essere ancora oggi, volenti o nolenti, uno scoglio di tolleranza, se non
reale, quanto meno ideale.
Ed è anche una vera e propria trasmigrazione culturale che Django compie in
tutto il suo tragitto, da nero schiavizzato e vestito di stracci, a uomo
libero, vestito di tutto punto e intento a far fare al suo cavallo un
educato passo di Dressage e non a compiere una cavalcata verso il tramonto.
Lo schiavo quindi non cerca di diventare come il mito dell'uomo americano
che il western ha sempre promosso, e cioè l'uomo solo e integerrimo contro
la società e la natura, ma l'uomo che diventa colto, educato, che torna ad
una nuova forma di intelligenza e controllo, su se steso e sulla natura. Nel
film, la vera sfida di Django non è quella di liberare la sua amata, ma
quella di divenire un uomo nuovo, libero in tutti i sensi e padrone della
sua vita e dei suoi sensi, padrone del suo controllo. La sua vera
liberazione è la liberazione dai propri istinti animali e non solo dal
padrone di una piantagione di cotone. Sotto questi punti di vista il film è
ricco e complesso e continuamente cerca lo scontro fra la cultura americana
e quella europea. E dalla violenza d'America davvero pochissimi si
salvano, soprattutto gli stessi schiavi che si lasciano uccidere, umiliare e
che, attraverso lo spregevole personaggio interpretato da Samuel L. Jackson,
servono il padrone bianco in maniera totale e con devota complicità. (A mio
parere poi è proprio sullo sviluppo del personaggio interpretato da Samuel
L. Jackson che Spike Lee si è arrabbiato così tanto).
La rappresentazione perfetta del ruffiano maledetto e servile.
L'idea che il film si concentri sullo sviluppo interiore di una umanità
piuttosto che sul suo rapporto con la violenza/assenza della natura è ben
evidenziato dal fatto che il paesaggio è poco visibile, poco raccontato,
poco importante. Gli uomini e le loro emozioni sono il cuore di questa
storia. La scrittura poi è sfavillante, e nella maggior parte dei casi
basata sul concetto di menzogna (o se preferite su quella che secondo il
regista è l'arte della recitazione). Anche su questa questione si potrebbero
scrivere interi saggi. Cosa vuol dire entrare ed uscire da un personaggio,
come questo può salvare la propria vita e quella degli altri, cosa succede
quando non si è in grado di reggere una parte e così via. In una manciata di
scene il vecchio Quentin insegna a qualsiasi attore neofita in cosa consiste
l'arte della recitazione. è vero che si tratta di una delle tematiche
presenti più o meno in ogni film del nostro amato, ma qui la questione si
palesa in vere e proprie lezioni estremamente esemplificate.
A tutti quelli che sono i piani di lettura del film poi si uniscono le
perizie tecniche, il suo stile e il suo linguaggio. Grandi ricostruzioni in
studio e set realizzati ad Hoc (molti erano già stati realizzati e
utilizzati dalla serie TV DeadWood), che grazie alla loro aria
meravigliosamente posticcia regalano una sensazione vagamente fiabesca al
tutto che è a mio parere una delle grandi qualità che il cinema dovrebbe
tornare ad avere (ricostruire tutto il ricostruibile più o meno e recuperare
così una sua specifica caratteristica la cui rinuncia molto spesso rende un
film non più cinema ma audiovisivo), utilizzo di zoom a schiaffo e tagli di
inquadratura che rubano a piene mani dallo stile dello Spaghetti Western (di
cui come è ben noto Tarantino è grande estimatore) ed un uso davvero
spregiudicato della colonna sonora (si va da Morricone ed Elisa, al folk del
sud degli Stati Uniti al Rap) fanno si che Tarantino riesca nell'impresa di
reinventare uno dei generi più difficile da reinventare, quello Western.
L'ultima cosa..ma perché Tarantino può fare quello che vuole? Per una
ragione molto semplice, oltre all'indiscusso talento, perché ama il cinema e
le storie. E viene prodotto da gente (i fratelli Weinstein) che amano le
storie e i film (oltre a voler fare i soldi, beh, certo). Chiedetevi perché
da noi non esiste più da molti decenni un regista di questo genere (si, uno
solo, ma il suo nome lo tengo per me) e dei produttori del genere. |