|
|
dharma guns di F. J. Ossang
con Guy Mc Knight,
Elvire |
|
|
|
![]() |
|
27/30
|
|
In Dharma Guns il protagonista deve scrivere una sceneggiatura che si scopre già scritta. E non potrebbe essere altrimenti. La trama di Dharma Guns rimastica non tanto tutto il rimasticabile, quanto ciò che già è stato rimasticato: scienziati ambiziosi che creano doppi genetici, dialoghi fumettistici, complotti su scala mondiale. Per non parlare del fatto che il protagonista sembra morire all’inizio e svegliarsi dal coma subito dopo, solo per ritrovarsi morente ma fuggitivo (e quindi vivo) alla fine del film… Più ancora del “masticare”, l’importante è come ciò che è stato masticato viene risputato fuori. Sembra di trovarsi di fronte a un remake post-punk di Kiss me deadly di Robert Aldrich (anche per via della bizzarra onomastica), dove i meandri del complotto in cui il protagonista si trova immerso (a malapena comprensibile e ricostruibile) contano meno dell’inerpicarsi di ogni tassello di esso (leggi: di ogni inquadratura) in un eccesso di stilizzazione grafica che lo splendido bianco e nero non cessa mai di far urlare. I frequenti cartelli (come la citazione debordiana “Le moment où je parle est déjà loin de moi”) convivono con le “oceaniche” location portoghesi, con la colonna sonora sparata sopra le righe a tutto volume. Dall’”isola dei morti” in cui è confinato il protagonista si esce spingendo sull’acceleratore della spensieratezza ludica, a patto che sia “davvero” scatenata. E il film sta al gioco, giocando scatenandosi, e non giocando “e basta” (che è piuttosto affare del postmoderno, che nel pressbook giustamente Ossang rifiuta). Nel cliché, Ossang sembra letteralmente “sguazzarci”, lasciarsi andare alle modulazioni selvaggiamente visuali delle sue pieghe. Tutto il film, non solo la colonna sonora, è sparato sopra le righe a tutto volume. La sua “amplificazione” del cliché lo porta molto oltre la “consumabilità” del cliché, e lo consegna alla fascinazione viva del suo (insospettato) spessore.
11:09:2010 |
|
|
|
|