DETECTIVE DEE AND THE MYSTERY

OF PHANTOM FLAME

di Tsui Hark

con Andy Lau, Tony Leung

di Marco GROSOLI

 

26/30

 

Un detective in carcere viene liberato dalla futura imperatrice della Cina (la stessa che lo aveva imprigionato), nel 690 dopo Cristo. Strani fenomeni, infatti, stanno accadendo, alla vigilia dell’incoronazione (tra i quali, strane autocombustioni di svariati membri della corte) e serve tutta l’abilità dello scafatissimo detective per evitare ogni rischio, nel giorno glorioso in cui verrà inaugurata una smisurata statua a fianco del palazzo imperiale in onore della neo-imperatrice. Il detective Dee, che pure salverà la pelle a tutta la corte venendo a capo dei mille intrighi al suo interno, rifiuterà di collaborare con la nuova sovrana, continuando ad essere un libero e splendido cane sciolto… delle fogne in cui è confinato (a causa del veleno che gli hanno messo in corpo, si brucerebbe alla luce del sole).

La metafora è limpida ed impossibile da mancare. “Incarcerato” dall’handover con cui Hong Kong dovette consegnarsi alla Cina nel 1997, Tsui non può che girare film “per l’impero”. Ma dietro quella che può legittimamente sembrare una resa, c’è in realtà una fiera dichiarazione di indipendenza. Non si tratta di sabotare il sistema dall’interno (come prova a fare l’antagonista di Dee interpretato da Tony Leung), ma di obbedire alla lettera a ciò che il sistema gli chiede per crearsi uno spazio (magari nel sottosuolo, come fa Dee) in cui sancire la propria autonomia senza “colludere”.

Alla prova del film, però, la linea che divide collaborazionismo e autonomia è ahinoi molto, molto esile. Il ritmo forsennato è sempre quello, così come è rimasta immutata (rispetto agli anni d’oro) la capacità di tappare le voragini di sceneggiatura e di continuità evenemenziale con la semplice forza di un’inventiva a dir poco torrenziale. La sbrigliatezza nell’uso degli effetti speciali (marchio di fabbrica di questi ultimi 15, non esaltanti anni tsuiani, e nel complesso assai meno orientati a colpire lo spettatore che a costruire uno per uno i tasselli che compongono un universo virtuale) è, come al solito, il prolungamento diretto della gagliarda libertà con cui ci si muove a 360 gradi (se non addirittura a 720) per trovare in qualunque punto tangente del tempo, dello spazio o dell’universo narrativo “materiale da cinema”, ovvero sorgenti di azione e di conflitto (da cui la congerie infinita di capovolgimenti, colpi di scena e ribaltoni inattesi che “pompano” il plot fregandosene della coerenza). L’impressione è però incontrovertibile: in questo sgargiante giallo/fantasy in costume, quelli che prima sembravano muscoli, ora sembrano anabolizzanti. E quindi, poco sembra contrastare la marcia del “neoblockbuster imperiale” (alla Zhang Yimou, per intenderci).

 

11:09:2010