Sono perle rare le pellicole capaci di rimettere in discussione i (pochi?
rari?) capisaldi “etici” delle esistenze entro le quali il common man
si trascina nel tentativo di puntellare al meglio i suddetti pilastri
(amicizia? fedeltà? perdono?) e nonostante il fatto che egli stesso si
produca in slalom quotidiani tesi ad evitarli come ingombranti paletti.
La “discesa”, cui qui si fa riferimento, è quella compiuta attraverso gli
inferi del proprio “Io”, mentre esperiamo una poco gratificante
vittoria/sconfitta nel confronto con i principi morali del nostro vivere.
Ovvio che tutto il film - un post-docu-horror, nei primi 15 minuti, solo
vagamente simile all’exemplum delle streghe di Blair e al loro miglior
figlio illegittimo (OPEN WATER) - indossi i panni della metafora, disponendo
comportamenti e corpi delle protagoniste “a strati”, cioè deponendone i
successivi cadaveri ai vari livelli delle grotte esplorate, secondo un
criterio vagamente gerarchico-dantesco, dove alla categoria di peccato (?)
corrisponde adeguata morte et sepoltura.
Ovvero.
In misura diversa e con varie sfumature, le ragazze-speleologhe si portano
sotto terra “micro o macro-precedenti” (traumi dovuti a tragedie personali,
sensi di colpa per tradimenti messi in atto) o semplici tratti del carattere
(greed, presumption etc), che chiedono di essere affrontati attraverso
un’unica prova secca – la scampagnata folle- dopo la quale saranno
survivors o dead souls.
La madre di tutte le catarsi, all’interno di questo schema, è posta alla
fine della dura contrapposizione tra la ragazza di colore, colpevole
di essere andata a letto col marito della sua migliore amica, e
quest’ultima, che rimane vedova poco dopo i titoli di testa.
Ciò che accade, in sostanza, è qualcosa di simile – tanto per rendere una
vaghissima idea del succedersi degli eventi - all’eliminazione progressiva
dei bambini di CHARLIE AND THE CHOCOLATE BOX: seppur in maniera molto meno
rigida, schematica, chi non esperisce micro-forme di crisi o
autocritica, portandosi dietro intatto il proprio difetto
(superficialità, eccessiva autostima, sprezzo del pericolo etc) muore, crepa
schiacciato tra le crepe della roccia che, smottando, schiaccia.
Armate delle onnipresenti videocamere digitali, le girls non claustrofobiche
si calano nel buio di grotte sconosciute, non presenti nelle mappe e,
quindi, innominate: alloggio perfetto per la messinscena di ciò che si
diceva: innominabilia, quali colpe, peccati etc.
Procedono, insomma, verso/attraverso una dimensione che le trascende e le
supera. Un aldilà/aldisotto buio come la morte. Un infernetto in
scala ridotta, con tanto di gironi sempre più soffocanti dove, al posto di
Virgilio-plus-Vate, incontrano (colpetto di genio di Marshall) astratti
neanderthal ciechi in lattice bianco chiazzato di ecchimosi nere.
Pessima compagnia, ma ottima intuizione narrativa e registica: il treno del
racconto deraglia intenzionalmente, chiedendo allo spettatore cosa teme di
più, tra la Natura non antropizzata e ribelle (possibile che l’uomo debba,
anche se per sport, colonizzare anche il cuore duro, l’hard-core del
sottosuolo?), o se stesso, seppur in forma di essere primigenio, adattato al
contesto e cattivissimo.
I terribili bipedi (?) sembrano incalzare le coscienze delle speleologhe
ormai alla deriva, chiamandole ad un corpo a corpo che vale più di mille
sedute dallo psicanalista, dal quale sorgeranno ancora vive la black woman e
la vedova – unica ad essersi allenata nella palestra del Male & Dolore,
perciò circospetta, analitica, mai superficiale – che indossa un viso
strappato coi denti a Sissy Carrie Spacek.
Le accelerazioni visive, per una volta, giovano alla resa, pertinentemente
cruentissima, delle lotte folli tra le umane e i gollum, votate ad un
estetica che accosta senza sosta primissimi piani digitalmente
blairwitchiani e stilosi piani ravvicinati di corpi rossosangue (apocalisse,
adesso, subito!).
Carrie-Kurz, sapute alcune verità nel più inaspettato dei modi, ormai più
forte di ogni cosa le capiti davanti, sorge dalle acque ematiche e si mette
sulle tracce dell’amica nera, nera di colpa.
Lady Vengeance è in azione, mentre si muove per cunicoli molto
ridleyscottiani, col suo corpo trionfante, simile ad una Ripley spietata,
che ha sterminato gli alieni, ma ha scoperto (siamo nel 2005, non nel
’79), che il surplus di Male, il vero Nemico era alla sua porta, invisibile
quando lo guardava sotto l’innocente/ accecante luce del sole, e
riconoscibile come tale solo ora, nell’inevitabilità definitiva del nero.
Il doppio finale, così dicono, non va svelato, ma comunque toglie il fiato e
soffoca quel poco di aria che era rimasta in giro, anche in sala.
Sarebbe peccato mortale sottovalutare un film così stratificato (!),
capace di attraversare con sicurezza l’apparente impermeabilità dei
sottogeneri dell’horror e, pregio ancora maggiore, di rendere astratti,
quasi concettuali, e non grotte-scamente (è il caso di dirlo) finti,
i corpi delle bianche creature underground.
Voto: 28/30
07:09:2005
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