VENEZIA.66

 

giuseppe de santis

di Carlo Lizzani

Italia 2009, 90'

 

Controcampo Italiano

 

24/30

Carlo Lizzani: “ Il cinema è un'arte di fatti e di uomini” 

Giuseppe De Santis, uno dei padri fondatori del Neorealismo cinematografico, ci viene raccontato attraverso l’occhio attento del suo vecchio amico collaboratore Carlo Lizzani, che scava fra gli archivi fra i ricordi frammentari di chi lo ha conosciuto, per esaltare un vecchio maestro del nostro cinema…

Giuseppe De Santis: “Io mi sono sempre sentito libero di agire secondo la mia coscienza di artista”

 

Il documentario di Carlo Lizzani ci illustra, con stile molto accademico, la vita artistica e i percorsi cinematografici di Giuseppe De Santis, esaltando il suo modo singolare di fare cinema. Ma prima di parlare del documentario, come è usuale fare, partiamo con una breve nota sul suo autore. Carlo Lizzani è regista di lungo corso: il suo esordio avviene nel 1951, si distinguerà poi con Banditi a Milano nel 1968, per poi girare Il gobbo, e ancora Il processo di Verona, in gran parte ispirati a fatti di cronaca o storici; vestì, prima ancora, il ruolo di sceneggiatore o di aiuto regista, stando vicino a tanti grandi del nostro cinema. Tra questi l’amico Giuseppe De Santis: insieme collaborarono alla rivista Cinema diretta da Vittorio Mussolini, che durante il fascismo riuscì a svolgere, tra le righe, un’opposizione sempre più chiara e significativa alla politica culturale del regime, e a costituirsi come vivaio di forze culturali e già antifasciste, che nel dopoguerra contribuiranno al rinnovamento della cinematografia italiana. All’epoca De Santis non attinse solo a temi e questioni che tratterà nelle sue opere mature, ma anche ad uno stile realista ed epico come lo erano le tradizioni narrative e cantate della cultura popolare. Fu proprio nel 1941, quando Giuseppe De Santis con Mario Alicata scriveva “che un giorno creeremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell’operaio che torna a casa”, in  anni in cui si cerca di uscire dalla guerra, che il cinema italiano ebbe la più grande corrente cinematografica della storia del cinema: nasce il Neorealismo italiano. Lizzani, come il suo caro amico, si interessa alle stesse tematiche, ed è così che, attraverso testimonianze precise o racconti dettagliatissimi, fa breccia nel cuore del pubblico, raccontando un cinema che non si può ignorare, vite di personaggi che sono chiuse a doppia mandata nei loro segreti. Lizzani ricorre ancora una volta a questo metodo di narrazione in questo suo ultimo lavoro; un documentario che offre un ritratto più dettagliato dell’uomo, dell’artista che è stato Giuseppe De Santis. La loro amicizia fraterna permette all’autore del documentario di soffermarsi non soltanto sulla critica cinematografica, ma di portare alla luce il carattere e il pensiero del protagonista e soprattutto il suo metodo singolare di vedere il cinema.

Tutto attraverso le parole del protagonista stesso, con spezzoni dei suoi film, immagini d’archivio miscelate con le intime testimonianze e i lontani ricordi di amici, colleghi, e familiari come: Gordana Miletic De Santis, Luisa De Santis, Stefano Della Casa, Sabrina Ferilli, Jean A. Gili, Franco Giraldi, Marco Grossi, Carlo Lizzani,  Andrea Martini, Francesca Neri, Virginio Palazzo, Silvana Pampanini, Ettore Scola e Mario Silvestri,  e altri ancora. Lizzani non dimentica di raccontarci uno stile cinematografico che, anche se influenzato da autori del calibro di Vidor, Griffith, Von Stroheim, Chaplin, Ejzenstejn, Renoir, ha fatto di De Santis uno dei registi più rinomati; la sua regia si impone in particolare per l’uso sapiente e originale della gru, del dolly e della tecnica del pan focus, con cui domina il movimento ampio ma controllato, soprattutto delle folle; la gru si prestava in modo funzionale a quelle splendide costruzioni fatte di corpi di tante belle ragazze, come quando danzavano avvolte in fantasiosi abiti luccicanti, si spostava, saliva, passava sopra le teste, attraverso gli spazi, riducendo tutto in piccoli dettagli. Si attribuisce a De Santis una capacità di leggere il mondo femminile, di esaltare la femminilità e la sensualità, creando un cinema fatto da “star”, attrici e attori da adulare, cogliendo prima di altri il potere della figura del divo.

Silvana Mangano, come ricorda la figlia di De Santis, è un prodotto della geniale creatività del padre: durante le riprese di Riso Amaro, il regista si accorse di come la prorompente figura della Mangano fosse sprecata all’ombra dell’attrice americana Doris Dowling, decidendo così di modificare il peso del personaggio dell’italiana. Il maestro ci ha lasciato molte pellicole di grande peso culturale, ma il mutare del clima culturale di quegli anni costringerà pian piano al silenzio uno dei nostri più dotati cineasti.

Senza dubbio sarà proprio un’opera come Riso amaro a contribuire al successo epocale di De Santis, che fonde insieme spettacolo hollywoodiano, intrigo, melodramma ed inchiesta sociale. Un film che, attraverso un dramma passionale di possente autenticità e un non latente impegno politico, proponeva una critica sociale di drammatica attualità. Un cinema senza eguali nell’Italia dell’1949: geniale a partire da certe intuizioni gramsciane, come fondere l'estetica del fumetto con un forte erotismo e coi dettami del neorealismo, sfociando in una sorta di western ambientato nel vercellese in tutto degno degli affreschi epici statunitensi. Grazie a questo film De Santis diventa probabilmente il regista italiano più famoso nel mondo.

Un viaggio documentaristico, quello che oggi fa Lizzani, coinvolgente, ma se avesse assunto un carattere meno accademico sarebbe risultato più piacevole. Nonostante questo, ci ricorda che capolavori come quelli di De Santis, che resistono a meraviglia all'usura del tempo, sono memoria per chi c’era, fantascienza per chi rimane, perché il cinema attuale si perde in alte pretese sottraendosi alle grandi idee, sia politiche e sociali che idiologiche.

 

12:09:2009

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Venezia, 02/12 settembre 2009