IL DERVISCIO
di Alberto Rondalli
con Antonio Buil Puejo e Ruhi Sari



Il film d'esordio di Alberto Rondalli rimane la pellicola più insolita nel panorama produttivo italiano degli ultimi anni. Coraggiosa è la decisione di trarre un film da un importante romanzo jugoslavo (Il derviscio e la morte di Mesa Selimovic) ed ancor più apprezzabile è la scelta di aver costituito un cast d'attori tutti turchi, ad eccezione del protagonista, lo spagnolo Antonio Buil Pejo (già visto nel Padre Pio Da Pietralcina, sempre diretto da Rondalli). La vicenda è ambientata in una città di provincia dell'impero ottomano all'inizio del 1900. Nurettin, derviscio e sceicco, dopo l'ingiusto arresto del fratello, cade inevitabilmente in una sorta di precipizio spirituale. Il fratello viene ucciso e lo sceicco, dopo la sofferenza della perdita, si avvicina a sentimenti a lui estranei come l'odio, la vendetta, la rabbia, intraprendendo così un percorso inverso a quello che la sua spiritualità dovrebbe riservargli.
Ipnotico nell'incedere, il ritmo del film segue, con discreta partecipazione e sincero coinvolgimento, la calata nelle tenebre dell'animo umano del derviscio Nurettin. Le prime sequenze stregano l'attenzione: il volto tirato di Buil Pejo e la splendida fotografia di Claudio Collepiccolo emergono dallo schermo carichi dell'intensità necessaria per raccontare una storia così ambiziosa e dal vago sapore shakespeariano. La luce della Turchia che si riflette negli interni e nel deserto, ma soprattutto il nero (profondo ed abbondante) che illumina i volti e gli uomini sono i veri protagonisti del film; attraverso loro possiamo seguire i mutamenti d'animo, le riflessioni, i pensieri saggi o incrinati dei personaggi e rimanere partecipi della vicenda così apparentemente lontana. Il regista rifiuta di mostrare tutto quello che di folcloristico una pellicola del genere avrebbe potuto offrire: le musiche, composte da veri dervisci con risultati interessanti, sono ridotte al minimo, le famose danze appena mostrate, ed i colori vengono desautorati a vantaggio di buio e di ombre indubbiamente più affascinanti. Per seguire il film quindi bisogna abbandonarsi al movimento cauto e riservato che unisce la messa in scena al moto interiore dei personaggi, tentando di catturare così l'anima della pellicola. Ad un certo punto però, lo stile elegante lascia il passo ad una inevitabile retoricità, mentre alcune lungaggini intaccano il seducente ritmo iniziale. Ma sono dettagli in un'opera matura, complessa, ambiziosa che Rondalli (autore anche della sceneggiatura) mette in scena con autentica fede e, soprattutto, senza cedere al fastidioso minimalismo che permea la gran parte del cinema italiano.

Voto: 25/30

Paolo FAZZINI
11 - 03 - 02


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