
Un giovane JM (Rikiya Kurokawa) vive con i suoi serpenti in un appartamento
della Tokyo postmoderna e ha un sogno: quello di possedere una dea, una
Citroen degli anni '60, la "déesse".
Parte per l'Australia, il luogo in cui potrà finalmente incontrare la
sua "déesse", sfiorare i lineamenti morbidi delle sue gote di un rosa
perfetto, ricordo di un epoca che la vide trionfare in parate eleganti,
e che grazie alle sue prestazioni riuscì a salvare la vita al generale
De Gaulle, colpito da un attentato. Roland Barthes diceva che la "déesse"
era scesa dal cielo. Una macchina che fu l'immagine del futuro e che conserva
ancora oggi questo fascino.
Alla dea è però legata la vita di un ragazza diciassettenne BG (Rose Byrne),
tra i sedili di questa macchina si intrecciano le memorie di sua madre,
di sua nonna e di una infanzia di violenze silenziose.
Una macchina che lega la storia tragica di due generazioni.
Inizieranno insieme un viaggio surreale, fatto di campi verdi che tagliano
un cielo azzurro e di nuvole bianche che si disegnano su un orizzonte
di alberi e silenzio. Un panorama di colori caldi e freddi, come quello
delle violette che baciano il viso in primo piano di BG, che non può vedere
il mondo così com'è ma solo sentirlo: la vita è per lei il sordido rumore
della morte di un insetto, che interrompe all'improvviso il suo volo sul
vetro della "déesse".
E' un viaggio questo che lei compie verso il passato, la macchina percorre
una strada interiore.
La "déesse" si anima e diventa un sentimento che, muovendosi tra le note
del violino di Jen Andersen, attraversa il tempo.
L'arido deserto australiano è misterioso e ambiguo.
Una storia che si compone per frammenti, continui flashback di cui non
si riesce ad afferrare completamente il senso: lontano, doloroso, nascosto.
Ogni momento è insieme autonomo e legato al tutto. Un armonia fatta di
colori e di situazioni contrastanti. Angolari inquadrature rompono la
prospettiva, una linearità che Clara Law volutamente nega al film. Non
c'è niente che abbia una logica o una coerenza. La storia è forse paradossale,
ma è nella paradossalità delle situazioni di cui si costruisce l'intera
vicenda che si coglie l'impulso. L'impulso è l'istintività. E' arrivare
lontano senza che si abbia una meta. E questo viaggio una meta non può
averla, perché non si può raggiungere il punto archetipico dell'esistenza
di un uomo. E' un viaggio di ritorno.
E' lo sforzo di lei che tenta disperatamente di amare la vita e di affrontare
il passato.
La sequenza del ballo è stupenda: il corpo di BG si muove libero, felice
senza sapere dov'è, cos'è, immaginando spazi e conquistandoli mentre si
abbandona alle note di una musica bizzarra e inquieta. Una danza che la
fa girare e girando lei conquista se stessa, si scopre leggera, si ama
e ama lui, perché gli ha insegnato a ballare, a esistere. Lui gli dà i
suoi occhi per vedere e lei si affida a lui.
I loro corpi si incontreranno tra i riflessi di un blu intenso e si ameranno,
in una scena delicata e sensuale. L'ultima sequenza del film li vede insieme,
a occhi chiusi, sempre sulla strada sterrata, verso l'infinito, che è
la direzione opposta, quella di andata. Ora vanno avanti e l'inquadratura
non pone un confine a questa via.
Il loro viaggio non continua ma ricomincia.
Chi rimane deluso dal film è perché forse non riesce a cogliere il senso
surreale di questo viaggio verso la scoperta di qualcosa di intangibile
e inspiegabile, un viaggio che si costruisce tra una strada lunga e sterrata,
come può esserla la vita. Questo film corrisponde ha l'intento della regista,
che del suo film ha dichiarato:" né silenzioso, né commovente, né percettibile,
né impercettibile, né nulla, né tutto. Uno stato di mistero, paradosso,
ambiguità. E' ciò che ho cercato di creare in questo film."
Un film che a Venezia mi ha appassionato, per la forza delle immagini
e di Rose Byrne, un'attrice credo tra le più promettenti e non solo del
cinema australiano. La sua splendida interpretazione è stata premiata
con la coppa Volpi.
Voto: 27/30
|