
E finalmente abbiamo visto DANCER IN THE DARK! La curiosità era francamente
tanta, dal momento che, oltre alla Palma d'oro, moltissimi gli avevano
assegnato i galloni del capolavoro, termine del quale spesso si abusa,
ma che resta pur sempre impegnativo. L'aspettativa nasceva poi dalla voglia
di mutare opinione su Lars Von Trier - autore che, fatta eccezione per
IL REGNO, non abbiamo mai amato (e men che meno dogme 95) - nella
certezza che l'intervento di autori come il regista di IDIOTI, capaci
indubbiamente di un deciso scarto rispetto al resto della produzione,
sia assolutamente necessaria per il futuro del cinema, non solo europeo.
Purtroppo non ci riesce ancora di dichiarare pieno amore al "genio" danese,
per quanto DANCER IN THE DARK sia senza dubbio la sua migliore prova dai
tempi di EUROPA. Essenzialmente perché il suo film è costruito a partire
da una grande idea, che poi in parte viene abbandonata a se stessa; perché
la forza emotiva del soggetto non ci sembra sufficiente a coprire alcune
lacune a livello di narrazione e perché Von Trier si preoccupa di spiegare
troppe volte quello che, già di per sé, grazie alle immagini ma non solo,
è più che chiaro.
Il musical è per antonomasia il genere cinematografico "senza pensieri",
quello che non solleva alcun tipo di questione, che riempie gli spazi
e i volumi più di qualsiasi altro e che, al disopra di tutto, può dirsi
quasi immune alla schiavitù del dialogo. In altre parole, potremmo definirlo
il più puro tra i generi cinematografici, nel quale l'immagine brilla
di luce propria perché parla da sola, dando ampio spazio al movimento.
L'intuizione - ottima - di Von Trier coincide con l'innestare lo spirito
e le coreografie del musical tra gli episodi di una tra le vicende più
cupe viste al cinema negli ultimi anni. Il musical equivale, per quanto
si è detto sopra, al sogno, alla fuga dalla realtà di tutti i giorni,
al momentaneo rifugio; momentaneo perché prima o poi devono giungere i
titoli di coda. Non per Selma (Björk) che, quando, giovane cecoslovacca,
andava al cinema, scappava prima dell'ultima canzone, così la magia non
avrebbe avuto fine. E ora, che è emigrata negli USA, è povera e viaggia
a lunghi passi verso la cecità, cerca anche nel meno armonico dei frastuoni,
quello della fabbrica dove lavora, le tracce di una melodia. La sua mente
viaggia, fugge, sente la musica dove non c'è e cambia i connotati di una
realtà, i cui attori divengono ballerini sempre pronti a sostenere
Selma e i suoi desideri. E anche Von Trier in coincidenza con queste coreografie
si ritaglia momenti di fuga dal suo dogma para-realistico, abbandonando
la camera a mano, le riprese tremolanti, l'immagine sgranata: i colori,
infatti, sono subito più vivi, il sonoro migliore, la musica di contorno
dominante, l'inquadratura fissa. Come a dire: la perfezione cinematografica
che è mimesi della realtà ma che, per l'antinomia che è alla base del
cinema, denuncia in questo modo la propria componente di artificialità.
Ciò che sembra più vero è, in realtà, frutto di una maggiore quantità
di finzione, per cui diviene proiezione dei sogni.
Fino a qui tutto funziona. Poi l'operazione si ripete senza un adeguato
coefficiente di innovazione: ogni qual volta Björk si trova di fronte
a quello che le sembra essere un punto di non ritorno, il ricorso alla
musica avviene puntuale. L'idea che ci siamo fatti - nonostante i singoli
numeri siano di grande forza, soprattutto in ragione della deviazione
emotiva che vengono a creare con la situazione d'origine - è di un eccessivo
insistere su di una soluzione narrativa che, per quanto originale (e sicuramente
geniale) di natura, appare, a breve, prevedibile, perdendo così di forza.
La visione di DANCER IN THE DARK, purtroppo, ci ha riportato alla memoria
anche le sensazioni e le impressioni che, nel 1996, ci trasmise LE ONDE
DEL DESTINO. Le due opere hanno, infatti, più di una cosa in comune. Entrambe
puntano decisamente e senza remore sulle corde dell'emozione, un'emozione
pura, primigenia, fino alle lacrime. Perché le due vicende hanno in sé
qualcosa di estremo, che non ammette deviazioni: narrano del sacrificio
di sé per gli altri, per un altro. Nel caso in questione tutta la vita
di Selma è in ragione del figlio, condannato anch'egli, prima o poi, alla
cecità; i soldi raccolti dalla madre - che preferirà morire piuttosto
che negarglieli - potranno però salvarlo. Una storia decisamente forte,
forse troppo forte: una parabola sull'amore che, data la recente conversione
al cristianesimo del regista, non fatica a palesare le proprie origini.
Ma questo non basta a fare un capolavoro: nessuno vuole negare che il
film abbia un impatto emozionale incredibilmente potente, che la vicenda
di Selma abbia il fascino romantico dell'utopia e che, dal cinema, si
possa uscire scossi. E' forte però il sospetto che, così facendo, Von
Trier si mascheri, punti troppo sulle corde della commozione, dimenticando
comunque di aver a che fare con un film che, in quanto tale, necessita
di un ritmo e di una qualche coerenza interna, per non risultare comunque
noioso. Un po' come il Benigni de LA VITA E' BELLA: non si posso discutere
i contenuti, ma bisogna andare oltre e superarne la suggestione. Ci sembra
infatti chiaro come in molti punti la pellicola perda di ritmo e - ci
ripetiamo volutamente - appaia prevedibile anche nelle soluzioni apparentemente
meno scontate, compreso il finale.
Siamo convinti che se dicessimo queste cose a Von Trier o a qualcuno dei
suoi fan più sfegatati, una risposta ci sarebbe sempre: la mancanza di
ritmo è voluta per maggiore adesione alle realtà; lo stesso dicasi per
il ripetersi dell'associazione sogno/musical; per quanto riguarda la spinta
sul pedale del melodramma, potrebbe trattarsi di una provocazione voluta;
così alcune banalità, per non parlare della didascalia finale (che bisogno
c'era di insistere ancora su quella questione, quanto già i dialoghi la
portano più volte alla luce? Così la puzza di didascalia diviene davvero
intensa…). Però sarebbe troppo comodo. E se il regista fosse stato qualcun
altro, avremmo perdonato comunque questo scivolamento nel melodramma,
o le invenzioni non solo dogmatiche di Von Trier bastano a fare di DANCER
IN THE DARK un ottimo film?
Se non un capolavoro, è certo tuttavia che DANCER IN THE DARK, e di riflesso
Von Trier, guadagnano moltissimi punti grazie all'interpretazione (e alla
voce) di Björk, la formidabile quanto alternativa cantante islandese,
bellissima in tutte le sue imperfezioni. Come già accaduto con Emily Watson
nel citato LE ONDE DEL DESTINO, il padre di dogme 95 si conferma
infatti uno straordinario scopritore di talenti interpretativi femminili;
donne capaci, (forse) in linea con il suo progetto, di mangiarsi da sole
l'attenzione dello spettatore e gran parte del film.
Voto: 26/30
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