cut

di Amir Naderi

con Hidetoshi Nishijima, Takako Tokiwa

e con Takashi Sasano, Denden

  di Paola Alioto

 

27/30

 

Shuji (Hidetoshi Nishijima) è un giovane cineasta “fuori dal coro” nella società giapponese contemporanea. Un giorno scopre che il fratello si è indebitato con una band yakuza per trovargli il denaro necessario affinchè potesse produrre i suoi film. Le conseguenze sono da copione: il consanguineo viene ucciso dai componenti del team mafioso, e adesso tocca a Shuji saldare il debito contratto, pena la morte. La cifra è ingente, e il tempo piuttosto breve: due settimane. Per estinguerlo, il giovane trasformerà il suo corpo, letteralmente, in un punchball: tanti pugni, tanti yen. Gli incontri hanno luogo presso la bisca nella quale il fratello lavorava, anzi, con più precisione, nel bagno dove l'uomo è stato ucciso. Per resistere, Shuji, ripete, come un mantra, i titoli dei suoi film preferiti: 100 pugni, 100 film.

Girato come un film giapponese in tutti i sensi, dalla scelta delle locations all'uso di tre camere - riferimento alla maniera di girare di Kurosawa Akira - CUT non è solo il racconto dello sforzo (fisico e  psicologico) di Shuji per chiudere ogni tipo di rapporto con il mondo yakuza, è anche un grido d'amore “eterno”, puro, senza condizionamenti verso il cinema inteso come Arte e non semplicemente come industria, come un mero business economico. Shuji scende tra le gente (definendoli in un attimo d'ira “idioti”) con il suo megafono, per denunciare lo stato di crisi in cui versa la settima arte. E, nella sua continua lotta verso “il piattume delle coscienze” organizza, sul terrazzo di casa sua, visioni di pellicole del passato: crea un suo cineclub, con 30/40 partecipanti a serata ai quali propone opere di sensei  del passato: Keaton, Welles, Ford, Bresson, Ozu, Mizoguchi, etc.

CUT innesta un meccanismo di sovrapposizioni/opposizioni e rimandi continuo: tra l'autore e il personaggio, il passato e il presente, la vita e la morte, il cinema e la vita, l'ideale e il fantastico. CUT è taglio, cesura; ma anche unione, montaggio. È tra questi due estremi che si muove la pellicola di Amir Naderi.

L'abitazione di Shuji è un covo di immagini: da ritagli di giornali a locandine, il fil-rouge che le lega è, per tutti, i grandi del cinema. È soprattutto a Ozu Yasujirō (si pensi all'uso dei silenzi nelle pellicole del maestro, ripreso da Naderi in questo film) e Kurosawa Akira che il regista (Shuji/Naderi) rende omaggio, andando a fare visita alle loro lapidi – da notare come la venerazione di Naderi sia totale, al punto che passa anche alla fotografia, che davanti ai due sensei vira al bianco e nero.

Naderi si serve del corpo per restituire al cinema una tangibilità, una concretezza che non ha mai avuto prima d'ora. E usa le immagini dei capolavori del passato – che si sovrappongono in dissolvenza incrociata a quelle del film che si vedono - come spettri. Il messaggio è chiaro: il cinema è qualcosa di sacro e come tale deve essere trattato. Esemplificativo a riguardo il rapporto che Shuji ha con le immagini: celebrativo, venerativo, e di fusione totale con essa (si pensi alla scena in cui il giovane, sdraiato sul suo letto, viene letteralmente “ricoperto” dalle immagini delle pellicole, unici elementi con i quali Shuji condivide il proprio talamo). Esasperante, viscerale, straziante: CUT colpisce lo spettatore per l'abilità con cui combina diversi piani testuali e apre la possibilità a numerose parentesi interpretative.
E, alla fine di un percorso che ci conduce verso una visione piuttosto pessimistica della condizione della settima arte, un anelito di speranza emerge: CUT è un film che ci dice che il cinema non è ancora (si spera) totalmente moribondo. Che esiste. Che è vivo.

 

02:09:2011