CUORI IN ATLANTIDE
di Scott Hicks
con Anthony Hopkins, Anton Yelchin, David Morse e Hope Davis



Con un film intimo, lieve e sincero il regista Scott Hicks, alla terza prova importante dopo SHINE e LA NEVE CADE SUI CEDRI, porta sul grande schermo un romanzo malinconico ed introspettivo di quel genio della narrativa contemporanea che è Stephen King riuscendo perfettamente a riprodurne il grande valore emozionale ma rinunciando quasi del tutto alla sua dimensione irreale persa tra spazio e tempo ed alla complessità di personaggi fatti di stratificazioni sedimentate in un passato difficile da ripercorrere al cinema che, del libro, facevano un capolavoro di intrecci logici e combinazioni intelligenti. Il film di Hicks è tratto, in particolare, dal primo racconto del romanzo CUORI IN ATLANTIDE di King, intitolato UOMINI BASSI IN SOPRABITO GIALLO, vicino a quella celebrazione dell’età dell’innocenza che è tema prezioso della produzione più schietta ed artisticamente compiuta dell’autore, presente, del resto, in tutti i suoi romanzi, compresi quelli più squisitamente horrorifici, e perde, pertanto, l’intreccio globale del libro i cui protagonisti erano destinati ad incontrarsi per meri artifici del caso nel corso di trenta anni della storia americana, rivisitata in chiave privata da un punto privilegiato di osservazione. Bobby Garfield, un fotografo di talento che vive il peso dei suoi anni come fosse biancheria umida sulle spalle, è costretto ad un confronto col passato quando un lutto improvviso lo riporta nella città che l’ha visto bambino. L’estate del 1960, quella dei suoi 11 anni, ritorna vivida nei suoi occhi assieme al ricordo degli amici d’infanzia, della madre vedova dalla sensibilità piatta come un marciapiede, delusa dalla vita e ripiegata su se stessa al punto da non intuire nemmeno l’enorme bisogno d’affetto del figlio, e soprattutto di Ted Brautigan, il misterioso inquilino della pensione che, giunto col sole nel viso e parole di saggezza, rappresenterà, per il piccolo Bob, la scoperta di un mondo proiettato verso il futuro, fatto di opportunità, di amore e di coraggio. L’arrivo di Ted produce nella vita di Bobby, che scorre tranquilla ai bordi di una strada lunga un tiro di fucile, quella presa di coscienza lucida che fa di un bambino un uomo. Quel signore un po’ stilè che sembra leggere nella mente delle persone pianterà, nel terreno fertile del cuore del suo piccolo amico, il seme della conoscenza stimolando la curiosità e la passione per un microcosmo fatto di libri, di citazioni perse qua e là come sassolini su un sentiero, di autori visti per la prima volta come esseri umani. Il lavoro che Ted offre a Bob non è, chiaramente, solo quello di leggere il giornale per risparmiare la sua vista indebolita ma quello di proteggerlo, di aiutarlo, di fare schermo con la sua vitalità e purezza tra lui e gli uomini bassi (in senso Dickensiano, come dice lo stesso Hopkins) e che sono la nemesi ed il castigo di Ted, il pericolo che mina l’oasi di aria pulita nel magma di un’esistenza tanto dura da spezzare il cuore. Il film comunica perfettamente quel senso di dolce pienezza della vita, di languore e felicità che domina il racconto di King, immortalando in immagini rese autentica poesia dalla straordinaria fotografia di Piotr Sobocinski (scomparso nel 2001 ed al quale il film rende omaggio) il passaggio dall’infanzia, unico momento in cui il cuore trabocca di sereni auspici cullato dal calore di un’illusione di realtà effimera come i pochi anni della fanciullezza, chimera come il regno di Atlantide, all’adolescenza e quindi all’età adulta, e lascia volutamente sullo sfondo il segreto da cui fugge e la dimensione insolita in cui si muove Brautigan. Pur rimanendo abbastanza fedele al racconto, infatti, il film opera dei necessari tagli lasciando, sparse nell’intreccio, inevitabili sfilacciature che il regista pretende di risolvere con la sola interpretazione, certo solida e levigata, di Anthony Hopkins. Rimangono, così, purtroppo, alcune irrecuperabili falle della sceneggiatura che si rivelano pesanti come sassi soprattutto nei momenti in cui il protagonista resta immobile ed assorto, rigido come un manichino, vaneggiando frasi scomposte, che nel libro avevano un senso, mentre fissa un punto nel vuoto con gli occhi sgranati come pellicola rovinata o quando le opportunità che il testo originale offre in ricchezza rimangono solo occasioni sfiorate come il breve accenno ad una sorta di potere psichico trasferito. Comunque la densità dell’atmosfera quasi fumosa e palpabile, la colonna sonora meravigliosamente retrò, dominata dai Platters, che sembra sottolineare il parallelo tra la fanciullezza di Bobby e l’innocenza del Paese delle opportunità, il privilegio del profondo legame che si cementa tra il bambino e l’adulto a colmare il vuoto di un padre scomparso, la delicatezza dell’amore preadolescente e di un bacio su cui misurare tutti quelli successivi, fanno di questo film un’occasione sapida di molteplici spunti di riflessione. L’interpretazione magnifica di Anthony Hopkins, finalmente lontano dagli eccessi che lo avevano imprigionato nel ruolo del cannibale, profondamente ispirato dalle radici originali dei suoi ruoli più impegnati, ed il promettente esordio del giovanissimo Anton Yelchin, tanto immediato e diretto da bucare lo schermo e rapire lo sguardo dello spettatore, aggiungono meriti ad un film che vale la pena vedere, dunque, che comunica, sussurrandolo, qualcosa di coinvolgente, che riesce a non tradire lo spirito di un libro fatto di pura emozione e, quindi, non facile da rendere, cui non manca nulla per piacere ed essere amato, sul cui ricordo è possibile appoggiare i gomiti, serenamente, come su di una comoda poltrona.

Voto: 27/30

Elisa SCHIANCHI
19 - 01 - 02


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