
Con
un film intimo, lieve e sincero il regista Scott Hicks, alla terza prova
importante dopo SHINE e LA NEVE CADE SUI CEDRI, porta sul grande schermo
un romanzo malinconico ed introspettivo di quel genio della narrativa
contemporanea che è Stephen King riuscendo perfettamente a riprodurne
il grande valore emozionale ma rinunciando quasi del tutto alla sua dimensione
irreale persa tra spazio e tempo ed alla complessità di personaggi fatti
di stratificazioni sedimentate in un passato difficile da ripercorrere
al cinema che, del libro, facevano un capolavoro di intrecci logici e
combinazioni intelligenti. Il film di Hicks è tratto, in particolare,
dal primo racconto del romanzo CUORI IN ATLANTIDE di King, intitolato
UOMINI BASSI IN SOPRABITO GIALLO, vicino a quella celebrazione dell’età
dell’innocenza che è tema prezioso della produzione più schietta ed artisticamente
compiuta dell’autore, presente, del resto, in tutti i suoi romanzi, compresi
quelli più squisitamente horrorifici, e perde, pertanto, l’intreccio globale
del libro i cui protagonisti erano destinati ad incontrarsi per meri artifici
del caso nel corso di trenta anni della storia americana, rivisitata in
chiave privata da un punto privilegiato di osservazione. Bobby Garfield,
un fotografo di talento che vive il peso dei suoi anni come fosse biancheria
umida sulle spalle, è costretto ad un confronto col passato quando un
lutto improvviso lo riporta nella città che l’ha visto bambino. L’estate
del 1960, quella dei suoi 11 anni, ritorna vivida nei suoi occhi assieme
al ricordo degli amici d’infanzia, della madre vedova dalla sensibilità
piatta come un marciapiede, delusa dalla vita e ripiegata su se stessa
al punto da non intuire nemmeno l’enorme bisogno d’affetto del figlio,
e soprattutto di Ted Brautigan, il misterioso inquilino della pensione
che, giunto col sole nel viso e parole di saggezza, rappresenterà, per
il piccolo Bob, la scoperta di un mondo proiettato verso il futuro, fatto
di opportunità, di amore e di coraggio. L’arrivo di Ted produce nella
vita di Bobby, che scorre tranquilla ai bordi di una strada lunga un tiro
di fucile, quella presa di coscienza lucida che fa di un bambino un uomo.
Quel signore un po’ stilè che sembra leggere nella mente delle persone
pianterà, nel terreno fertile del cuore del suo piccolo amico, il seme
della conoscenza stimolando la curiosità e la passione per un microcosmo
fatto di libri, di citazioni perse qua e là come sassolini su un sentiero,
di autori visti per la prima volta come esseri umani. Il lavoro che Ted
offre a Bob non è, chiaramente, solo quello di leggere il giornale per
risparmiare la sua vista indebolita ma quello di proteggerlo, di aiutarlo,
di fare schermo con la sua vitalità e purezza tra lui e gli uomini bassi
(in senso Dickensiano, come dice lo stesso Hopkins) e che sono la nemesi
ed il castigo di Ted, il pericolo che mina l’oasi di aria pulita nel magma
di un’esistenza tanto dura da spezzare il cuore. Il film comunica perfettamente
quel senso di dolce pienezza della vita, di languore e felicità che domina
il racconto di King, immortalando in immagini rese autentica poesia dalla
straordinaria fotografia di Piotr Sobocinski (scomparso nel 2001 ed al
quale il film rende omaggio) il passaggio dall’infanzia, unico momento
in cui il cuore trabocca di sereni auspici cullato dal calore di un’illusione
di realtà effimera come i pochi anni della fanciullezza, chimera come
il regno di Atlantide, all’adolescenza e quindi all’età adulta, e lascia
volutamente sullo sfondo il segreto da cui fugge e la dimensione insolita
in cui si muove Brautigan. Pur rimanendo abbastanza fedele al racconto,
infatti, il film opera dei necessari tagli lasciando, sparse nell’intreccio,
inevitabili sfilacciature che il regista pretende di risolvere con la
sola interpretazione, certo solida e levigata, di Anthony Hopkins. Rimangono,
così, purtroppo, alcune irrecuperabili falle della sceneggiatura che si
rivelano pesanti come sassi soprattutto nei momenti in cui il protagonista
resta immobile ed assorto, rigido come un manichino, vaneggiando frasi
scomposte, che nel libro avevano un senso, mentre fissa un punto nel vuoto
con gli occhi sgranati come pellicola rovinata o quando le opportunità
che il testo originale offre in ricchezza rimangono solo occasioni sfiorate
come il breve accenno ad una sorta di potere psichico trasferito. Comunque
la densità dell’atmosfera quasi fumosa e palpabile, la colonna sonora
meravigliosamente retrò, dominata dai Platters, che sembra sottolineare
il parallelo tra la fanciullezza di Bobby e l’innocenza del Paese delle
opportunità, il privilegio del profondo legame che si cementa tra il bambino
e l’adulto a colmare il vuoto di un padre scomparso, la delicatezza dell’amore
preadolescente e di un bacio su cui misurare tutti quelli successivi,
fanno di questo film un’occasione sapida di molteplici spunti di riflessione.
L’interpretazione magnifica di Anthony Hopkins, finalmente lontano dagli
eccessi che lo avevano imprigionato nel ruolo del cannibale, profondamente
ispirato dalle radici originali dei suoi ruoli più impegnati, ed il promettente
esordio del giovanissimo Anton Yelchin, tanto immediato e diretto da bucare
lo schermo e rapire lo sguardo dello spettatore, aggiungono meriti ad
un film che vale la pena vedere, dunque, che comunica, sussurrandolo,
qualcosa di coinvolgente, che riesce a non tradire lo spirito di un libro
fatto di pura emozione e, quindi, non facile da rendere, cui non manca
nulla per piacere ed essere amato, sul cui ricordo è possibile appoggiare
i gomiti, serenamente, come su di una comoda poltrona.
Voto: 27/30
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