crazy horse

di Frederick Wiseman

documentario

  di Marco Grosoli

 

27/30

 

I suoi film hanno da tempo oltrepassato il centinaio. Ma il suo cinema rimane uguale: Fred Wiseman, uno dei maggiori documentaristi al mondo, continua a marcare stretto di volta in volta una situazione ben definita (un'istituzione scolastica o manicomiale, alcuni casi di violenza domestica, uno zoo o quant'altro), e si adopera per filmarne lo scheletro, lo stato più asciutto e privo di fronzoli delle azioni che la definiscono, insieme ai brandelli di carne che a questo scheletro rimangono attaccati.

Stavolta è il turno del Crazy Horse, celeberrimo locale notturno parigino, di cui vengono restituite con laconica esattezza le proprie fasi costitutive: le prove, le discussioni tra coreografi, gestori e ballerine, le esibizioni, le preparazioni del locale prima delle serata, e quant'altro. Sempre, rigorosamente, in medias res.

Con La danse, un paio di anni fa, il cineasta si è confrontato con il balletto: un genere chiave del suo cinema, dal momento che Wiseman, in fondo, riduce tutte le situazioni con cui si confronta a balletti, a coreografie più o meno arzigogolate di un sistema celibe di gestualità più o meno rigidamente prefissate da quel grande coreografo invisibile che è la società.

Ora Wiseman va ancora più avanti. Sempre di balletti si tratta, ma ora c'è di mezzo un'altra costante-chiave della sua inconfondibile forma cinematografica: la nudità. Davanti alla sua macchina da presa, il mondo è nudo: abbandona la sua pretesa di essere “vero” o “reale” e si mostra per quel groviglio astratto di fili e vettori che è. Per quel coacervo di linee dettate di volta in volta dalla natura della situazione presa in causa, che letteralmente inghiotte la realtà del mondo con la sua spettralità. Ad essere nudo, nei film di Wiseman, non è il re, ovvero la società, ma lo spettro che la muove da chissà dove come fosse un burattino.

Altro tratto: il desiderio. Una delle prime immagini del film è un'insegna del locale, algidamente filmata, che reca la parola “desiderio”. E in effetti, lungo tutto il film, il desiderio è affrontato con una freddezza e un'esteriorità così inflessibili da rasentare la pornografia. Anche questo appartiene eccome al cinema di Wiseman, che tratta la società come un ottuso stantuffare e affannarsi estraneo a qualunque occhio vi si posi. Il mondo come lo vedrebbe un alieno, esterrefatto non davanti alla novità di ciò che vede, ma del fatto che ciò che vede, piano piano, comincia ad organizzarsi in ancora più incomprensibili e impenetrabili regolarità, in un sistema di costanti che sembrerebbero suggerire un rito sconosciuto.

Rispetto a La danse, che riprendeva i balletti nel loro farsi durante le prove, Crazy Horse aggiunge anche gli spettacoli stessi ripresi frontalmente durante le esibizioni ufficiali sul palco. Non c'è fascinazione che tenga, non c'è spettacolo che non possa o debba denudarsi (negando così la “presa” emotiva in direzione di cui è concepito) fino a ridursi a un muto gioco di fredde linee. Tutto è un gioco di fredde linee, indifferentemente dentro e fuori dal palco. Dev'essere per questo che, incurante dei nudi, Wiseman ha scelto di aprire e chiudere il suo film con il nudo più nudo del nudo: ombre cinesi che si agitano, splendidamente gratuite come tutta la gestualità sciorinata nei suoi film, su di uno schermo bianco.

 

09:09:2011