L’universo dei vivi adulti devitalizzati,
asfittico e repressivo, ha sempre spinto Burton verso la libera creatività
di mondi altri, dove regnano felici bambini, animali e trapassati.
Frankenweenie, il post-cane che abbaiava con un po’ di zampe nell’Ade e
faceva esordire il fantastico Tim, era il manifesto di una poetica
neo-gotica ma non horror, dove l’alterità del corpo semi-morto, o puzzle di
dead bodies (corpses), o definitivamente defunto, non rende esplicito alcun
senso di perdita, quanto la conquista di una condizione liberata altrimenti
non acquisibile entro le maglie strette e soffocanti del vivere
non-six-feet-under.
Burton e ogni diverso del mondo attraverso i tempi (carbonari,
streghe, eretici, crepuscolari, punk) è costretto a portare avanti
un’esistenza sopra-terra fatta di nascondimenti: si sta già nel buio, si
mette in scena una continua metafora dell’essere morti ed un’inesausta
sparizione, poiché i convenzionalmente normali, gli altri –“i pazzi
siete voi”- sono la maggioranza, purtroppo. La massa indistinta che mette al
muro chi non sembra uscito da una catena di montaggio delle anime.
Non c’è distanza tra il Carpenter di THEY LIVE e Burton: l’uso dello skull,
il teschio, serve biunivocamente per rappresentare i morti che camminano
solari su questo pianeta, gli zombi allegramente inseriti nella diseconomia
del profitto, e la minoranza di spiriti libri costretti a vestirsi di nero
(lutto inverso) per celebrare il funerale dei primi, per re-ciderli
(uccidendoli metaforicamente) dalla loro esistenza. In due parole: ecco
perché i piffdiddy di turno, quelli che addirittura nascono già neri (!), ma
vogliono fare lunghi passi verso la luce, poi finiscono col vestirsi di
bianco.
Il mondo è fatto, sintetizzando, di piffdiddy e di timburton contrapposti:
zombi versus freak, vivimorti contro mortivivi.
La freak parade costruita dal regista nel corso degli anni è, tra
l’altro, il massimo di libertà espressiva proveniente dal cinema americano,
oltre alla Pixar e ai maudits sottotestuali (Romero, Ferrara, Lynch), dove
il viatico dell’animazione o del film gener(e)azionale - da NIGHTMARE BEFORE
CHRISTMAS a EDWARD SCISSORHANDS a MARS ATTACKS - garantisce una visibilità
neo-globale direttamente proporzionale alla cecità degli spettatori, che lo
vedono come un fumettaro simpatico e hyppie, ma innocuo. Abbiamo la netta
sensazione che di BIG FISH, costoro, si siano portati a casa solo la
componente fantastic-onirica e non quella recordativa (ricordare, ovvero
ridare al cuore), non quindi l’“adulta” meditazione sul senso di
perdita, che mai è definitiva e monocromaticamente tragica, se si mantiene
(dentro il cuore) la cosa-la persona scomparse .
THE CORPSE BRIDE, l’adorabile e sexy cadaverino-donna yiddish, prosegue
nell’esposizione dei principi di quella poetica.
Esce dal terreno marcio con la stessa decisione di Chris Walken in SLEEPY
HOLLOW (c’è sempre di mezzo un albero secco o il suo sembiante), ma stavolta
è la forza dell’amore o di una promessa d’amore a richiamarla
momentaneamente sul palcoscenico asettico, plumbeo e vuoto della minoranza
viva.
Ancor più magicamente che in NIGHTMARE BEFORE CHRISTMAS, il passo-uno crea
una danza di scheletri, una skeleton crew molto busbyberkleyana, dove la
fratellanza e la solidarietà tra i post-corpi, uniti in balli e feste da
matrimonio ebraico, rende l’idea di come l’emarginazione crei solidarietà,
mentre ricchezza o fiacca nobiltà sono capaci di apparecchiare solo
matrimoni combinati nei quali i predestinati si amano davvero, mentre i
genitori s’impantanano nel calcolo di un vantaggio derivante dall’operazione
messa in atto.
Victor deve sposare Victoria, ma riporta in questo mondo una sposa defunta
(diretto riferimento a fatti di sangue della cultura ebraica) infilando
l’anello nuziale al suo dito stecchito e promettendole amore eterno.
Si tratta di un rehearsal, di una semplice prova della cerimonia, ma questo
basta per rigenerarla e riportarla al livello di sopra, innamorata, ma
generosamente pronta a ri-sacrificarsi in nome di una solidarietà (come
vedremo) tutta femminile.
Incrocio pirotecnico di Hammer, Disney e Broadway mai tentato finora, THE
CORPSE BRIDE è un capolavoro assoluto (non “piccolo capolavoro”,
come sentenziano altri di fronte a film brevi, di genere o d’animazione),
col quale molti dovranno necessariamente confrontarsi in futuro.
Bambini e adolescenti a rischio di contaminazione (troppa PS2, troppi MP3,
troppo WWWeb), dovrebbero crescere a pane e Burton, il Grimm dickensiano del
Duemila, ma senza pesanti decaloghi etici che non siano un inno alla
libertà, alla felicità e all’equivalenza di esistenza pre e post-mortem.
Alcune imperdibilia : il cane-carcassa, l’occhio che passa da un cavo
all’altro del teschio, la deglutizione non-sense degli scheletri.
Voto: 30/30 e lode.
09/09/2005
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