CONTA DI ME
di Kenneth Lonergan
con Laura Linney, Mark Ruffolo,
Matthew Broderick e Rory Culkin



Ha l'apparenza di un film come tanti altri questo primo lavoro di Kenneth Lonergan, sceneggiatore teatrale e cinematografico (TERAPIA E PALLOTTOLE) alla sua prima esperienza registica: è la storia di due fratelli uniti dalla disgrazia della morte dei genitori quando erano bambini e divisi dalle diverse scelte di vita, per cui Sammy (Laura Linney) vive ancora nella cittadina di provincia dove è nata, conducendo un'esistenza apparentemente tranquilla e misurata, mentre Terry (Mark Ruffolo) gira il mondo alla ricerca di una stabilità che però non trova da nessuna parte. Nemmeno il ritorno a casa dalla sorella riuscirà a placare la sua insofferenza, anche se gli permetterà di approfondire la conoscenza con suo nipote, un bambino di 8 anni che Sammy cresce da sola e che non ha mai conosciuto il padre.
Ma dietro questa semplice storia c'è un racconto di sfumature che cattura lo spettatore e lo trascina direttamente dentro i personaggi. Quello che si vuole rappresentare è il loro mondo emotivo, in tutte le sue sfaccettature e contraddizioni. E così, davanti ad immagini in parte già viste e ad una trama che alla fine può sembrare prevedibile, la vera particolarità di questo film sta nella capacità di cogliere i momenti e di saperli raccontare in modo naturale, semplice, ma intenso. Sembra quasi che il regista abbia voluto separare i due piani: da un lato quello formale del racconto e dall'altro quello che sta dietro la storia e che nello stesso tempo le dà spessore. Perché dalla vita di Sammy e Terry, dalle loro vicende, dal loro modo di parlare e dalle cose che dicono, dai loro sorrisi e dai momenti in cui abbassano gli occhi noi capiamo tante cose che non fanno parte della storia, che nessun narratore ci spiega, ma che ci appaiono chiare e limpide, come è proprio delle cose vere.
A ciò contribuisce anche una scelta stilistica particolare, che vede succedersi sequenze molto diverse tra di loro: infatti, accanto a scene statiche si affiancano momenti vivaci e ritmici. Come se questa intermittenza fosse un modo per assecondare i sentimenti dei personaggi e per facilitarne la resa. Non solo, ma anche la scelta di girare in interni i momenti con i dialoghi più intensi risponde al medesimo intento di guidare lo spettatore nel percorso emotivo segnato dal regista. D'altra parte Lonergan è anche lo sceneggiatore del film (nonché interprete, nella parte del prete) e questo contribuisce a dare al messaggio un'omogeneità di fondo. E il messaggio è quello dell'eterna ambiguità delle emozioni e della vita in genere, che i due protagonisti riescono ad interpretare al meglio, servendosi l'uno dell'altro per raccontare se stessi.
Malgrado l'intensità della pellicola, quello che poi manca, appunto, è un supporto narrativo interessante. Infatti la storia, sebbene nella prima parte sia in linea con il tipo di atmosfera che si vuole raccontare, mano a mano finisce per cadere nella trappola della banalità, rischiando di far classificare questo come un film di genere. Il finale sembra un po' frettoloso, ma forse è una scelta voluta e in linea con l'idea che l'unico modo per rimettere ordine dentro di sé dopo delle forti emozioni e quello di archiviarle velocemente per poi magari recuperarle un po' per volta col tempo.
Vincitore del Sundance Film Festival 2000 come miglior film e miglior sceneggiatura e di numerosi altri premi, non ha avuto la stessa fortuna agli oscar dove concorreva per la miglior attrice e per la miglior sceneggiatura.

Voto: 27/30

Francesca MANFRONI
17 - 08 - 01


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