LE CONSEGUENZE DELL'AMORE
di Paolo Sorrentino
Con: Olivia Magnani, Adriano Giannini, Raffaele Pisu, Angela Goodwin

di Marco GROSOLI


"Io non sono un uomo frivolo. Di frivolo c'è solo il mio nome: Titta Di Girolamo.". Titta è un commercialista di assoluto grigiore costretto dalla mafia, a causa di una mediazione commerciale andata a catafascio, a "riparare" facendo per loro da intermediario con una banca svizzera. Il suo incarico consiste nel portare in banca una volta a settimana una valigia stracolma di denaro, assicurarsi del conteggio e di un incasso "trasparente". Tutto il resto è noia: da decenni ormai è infatti costretto a risiedere nello stesso alberghetto elvetico, dunque ha dovuto tagliare i ponti con la famiglia e in pratica con gran parte del restante genere umano. Uniche distrazioni: le partite a poker con gli anziani ex-proprietari dell'albergo e l'eroina.
Sorrentino, giovane autore in ascesa vertiginosa, prende dal noir, o meglio, dal polar (genere spiccatamente francese che devia dal noir per alcune sfumature), non tanto i meccanismi narrativi o le regole di base, quanto l'idea di immutabilità, di fatalità, di ineluttabile, che permea la vicenda. Le conseguenze dell'amore è innanzitutto la storia di un essere umano immobile, di una vita bloccata, e degli sforzi fatti per sbloccarla. Dunque, il ristagno narrativo da una parte, e dall'altra un'incredibile mobilità della macchina da presa. Per due terzi del film, l'azione non vuole saperne di procedere. Le situazioni si susseguono senza sfociare a niente, tutto, che sia l'inattesa puntatina dei killer, la droga, lo spiraglio di umanità trovato nella cameriera, il fratello, la famiglia, il lavoro, assomiglia più che altro a un'illusoria deviazione dalla inarrestabile ripetitività dell'insieme, una patetica parentesi destinata al nulla. Anzi, semmai le varie tracce lavorano di contrasto per favorire il ristagno generale: ad ogni barlume di intimità con la cameriera la sceneggiatura fa sempre seguire puntualmente un "sussulto" gangsteristico (i killer che invadono la sua stanza, il furto della valigia), col risultato che la speranza di risoluzione dell'impasse decennale di Titta tramite l'amore venga sistematicamente frustrata, ricacciata nell'impossibile. L'Azione, dunque, è ridotta ai minimi termini e sembra sempre sul punto di spegnersi: il suo campo viene lentamente invaso dalla Descrizione. Grazie in primis ai movimenti di macchina, spesso lenti, obliqui, anche intricati a volte, usati per tracciare traiettorie sottilmente nervose e alternative all'immobilità dell'ambiente. Dettagli, sprazzi onirici (i chierichetti accanto al letto di Titta quando si droga), giochi di sguardi (specie tra lui e la cameriera), slittamenti del punto di vista (nella scena in cui una ragazza legge un passo di Céline), assecondati da una macchina da presa che muovendosi stringe ulteriormente spazi di per sé soffocanti, inasprendo il serrato contrasto tra la stasi e il movimento che il film porta avanti. Insomma, c'è tutto un pulsare al di sotto di un'atmosfera pesantemente paludata che Sorrentino sa orchestrare alla perfezione.
Il suo è un lavoro certosino, equilibratissimo, mai succube dell'esibizionismo stilistico, sempre attento a evitare che la lunga serie di annotazioni surreali (la Vanoni, il manichino dell'incidente, il cemento, il Papillon, i chierichetti sul letto, il personaggio dell'inserviente, la sigaretta del killer, e un milione di altri, lo striscione sull'ipertrofia della prostata) non sfoci mai nella farsa. Anzi. Tracciato, per appartenenza al genere, un orizzonte fatale e ineluttabile, il film disegna a furia di sorprese e movimenti di macchina la contromisura dell'ineluttabile: la bizzarria, la piccola deviazione da un percorso irrimediabilmente segnato, la fuga laterale di breve respiro. La seconda parte del film, strutturalmente molto diversa, lo conferma definitivamente. Non solo perché la speranza di una risoluzione piena degli eventi scompare, essendo il Fato in un noir/polar pur sempre il Fato e la cameriera deve dunque schiantarsi con la macchina il giorno in cui deve uscire con Titta. Ma soprattutto perché una volta impostato il Conflitto, il nucleo drammatico principale dell'azione (una valigia piena di soldi che, al contrario di tutte le altre, non arriva alla banca), a noi spettatori viene negato completamente il suo stesso sviluppo, sostituito da una serie di flashback che ci svelano gli eventi a fatto già compiuto. Dunque, il gesto clamoroso del protagonista viene privato della strutturazione drammatica che ne farebbe un gesto eroico, e diventa una bizzarria tra tante, magari più grande delle altre ma senza che diventi davvero decisivo. E, una volta di più, viene negata l'Azione, il cambiamento vero. Fino alla fine e oltre, Titta non è un eroe ma un omuncolo tremante che la macchina da presa avvicina in uno splendido lunghissimo movimento a seguire di spalle, mentre si reca dal boss. Ma proprio perché l'azione è rifiutata fino in fondo, il film riesce a liberarsi egregiamente dalle logiche specifiche del genere. Invece di seguire il genere assecondando l'azione ai suoi meccanismi, toglie di mezzo l'azione e lascia la Descrizione a lavorare il genere ai fianchi fino a farlo esplodere a forza di sottili squilibri, di leggeri sussulti che spostano il film a lato della nera stagnazione generale che descrive. E' questione di quantità, questo è un film dove tutte le scale di grandezza vengono pacatamente frantumate: il dettaglio conta più della voce over, il segreto più inconfessabile di un uomo è il furto di un paio di sci, seguire uno sguardo conta più di costruire uno spazio, lo pseudo migliore amico sui piloni conta più della vita, una vincita a poker di due lire viene pagata con un milione di dollari, la surrealtà del singolo istante fugace vale più dell'architrave di sceneggiatura comunque cesellata al millimetro.
 

Voto: 28/30

30.09.2004


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