
"Io non sono un uomo frivolo. Di frivolo c'è
solo il mio nome: Titta Di Girolamo.". Titta è un commercialista di assoluto
grigiore costretto dalla mafia, a causa di una mediazione commerciale andata
a catafascio, a "riparare" facendo per loro da intermediario con una banca
svizzera. Il suo incarico consiste nel portare in banca una volta a
settimana una valigia stracolma di denaro, assicurarsi del conteggio e di un
incasso "trasparente". Tutto il resto è noia: da decenni ormai è infatti
costretto a risiedere nello stesso alberghetto elvetico, dunque ha dovuto
tagliare i ponti con la famiglia e in pratica con gran parte del restante
genere umano. Uniche distrazioni: le partite a poker con gli anziani
ex-proprietari dell'albergo e l'eroina.
Sorrentino, giovane autore in ascesa vertiginosa, prende dal noir, o
meglio, dal polar (genere spiccatamente francese che devia dal
noir per alcune sfumature), non tanto i meccanismi narrativi o le regole
di base, quanto l'idea di immutabilità, di fatalità, di ineluttabile, che
permea la vicenda. Le conseguenze
dell'amore è innanzitutto la storia di un essere umano immobile, di
una vita bloccata, e degli sforzi fatti per sbloccarla. Dunque, il ristagno
narrativo da una parte, e dall'altra un'incredibile mobilità della macchina
da presa. Per due terzi del film, l'azione non vuole saperne di procedere.
Le situazioni si susseguono senza sfociare a niente, tutto, che sia
l'inattesa puntatina dei killer, la droga, lo spiraglio di umanità trovato
nella cameriera, il fratello, la famiglia, il lavoro, assomiglia più che
altro a un'illusoria deviazione dalla inarrestabile ripetitività
dell'insieme, una patetica parentesi destinata al nulla. Anzi, semmai le
varie tracce lavorano di contrasto per favorire il ristagno generale: ad
ogni barlume di intimità con la cameriera la sceneggiatura fa sempre seguire
puntualmente un "sussulto" gangsteristico (i killer che invadono la sua
stanza, il furto della valigia), col risultato che la speranza di
risoluzione dell'impasse decennale di Titta tramite l'amore venga
sistematicamente frustrata, ricacciata nell'impossibile. L'Azione, dunque, è
ridotta ai minimi termini e sembra sempre sul punto di spegnersi: il suo
campo viene lentamente invaso dalla Descrizione. Grazie in primis ai
movimenti di macchina, spesso lenti, obliqui, anche intricati a volte, usati
per tracciare traiettorie sottilmente nervose e alternative all'immobilità
dell'ambiente. Dettagli, sprazzi onirici (i chierichetti accanto al letto di
Titta quando si droga), giochi di sguardi (specie tra lui e la cameriera),
slittamenti del punto di vista (nella scena in cui una ragazza legge un
passo di Céline), assecondati da una macchina da presa che muovendosi
stringe ulteriormente spazi di per sé soffocanti, inasprendo il serrato
contrasto tra la stasi e il movimento che il film porta avanti. Insomma, c'è
tutto un pulsare al di sotto di un'atmosfera pesantemente paludata che
Sorrentino sa orchestrare alla perfezione.
Il suo è un lavoro certosino, equilibratissimo, mai succube
dell'esibizionismo stilistico, sempre attento a evitare che la lunga serie
di annotazioni surreali (la Vanoni, il manichino dell'incidente, il cemento,
il Papillon, i chierichetti sul letto, il personaggio dell'inserviente, la
sigaretta del killer, e un milione di altri, lo striscione sull'ipertrofia
della prostata) non sfoci mai nella farsa. Anzi. Tracciato, per appartenenza
al genere, un orizzonte fatale e ineluttabile, il film disegna a furia di
sorprese e movimenti di macchina la contromisura dell'ineluttabile: la
bizzarria, la piccola deviazione da un percorso irrimediabilmente segnato,
la fuga laterale di breve respiro. La seconda parte del film,
strutturalmente molto diversa, lo conferma definitivamente. Non solo perché
la speranza di una risoluzione piena degli eventi scompare, essendo il Fato
in un noir/polar pur sempre il Fato e la cameriera deve dunque
schiantarsi con la macchina il giorno in cui deve uscire con Titta. Ma
soprattutto perché una volta impostato il Conflitto, il nucleo drammatico
principale dell'azione (una valigia piena di soldi che, al contrario di
tutte le altre, non arriva alla banca), a noi spettatori viene negato
completamente il suo stesso sviluppo, sostituito da una serie di flashback
che ci svelano gli eventi a fatto già compiuto. Dunque, il gesto clamoroso
del protagonista viene privato della strutturazione drammatica che ne
farebbe un gesto eroico, e diventa una bizzarria tra tante, magari più
grande delle altre ma senza che diventi davvero decisivo. E, una volta di
più, viene negata l'Azione, il cambiamento vero. Fino alla fine e oltre,
Titta non è un eroe ma un omuncolo tremante che la macchina da presa
avvicina in uno splendido lunghissimo movimento a seguire di spalle, mentre
si reca dal boss. Ma proprio perché l'azione è rifiutata fino in fondo, il
film riesce a liberarsi egregiamente dalle logiche specifiche del genere.
Invece di seguire il genere assecondando l'azione ai suoi meccanismi, toglie
di mezzo l'azione e lascia la Descrizione a lavorare il genere ai fianchi
fino a farlo esplodere a forza di sottili squilibri, di leggeri sussulti che
spostano il film a lato della nera stagnazione generale che descrive. E'
questione di quantità, questo è un film dove tutte le scale di grandezza
vengono pacatamente frantumate: il dettaglio conta più della voce over, il
segreto più inconfessabile di un uomo è il furto di un paio di sci, seguire
uno sguardo conta più di costruire uno spazio, lo pseudo migliore amico sui
piloni conta più della vita, una vincita a poker di due lire viene pagata
con un milione di dollari, la surrealtà del singolo istante fugace vale più
dell'architrave di sceneggiatura comunque cesellata al millimetro.
Voto: 28/30
30.09.2004 |