|
||||
|
||||
![]() |
||||
Forse guardando il colossal tratto dal romanzo
di Dan Brown più di qualcuno si sarà trovato a ripensare alle peripezie di
quell’eroe con la frusta che aveva il nome di Indiana Jones. Sì, proprio
lui, l’accademico archeologo che, per amore della conoscenza, non esitava a
dismettere i panni del forbito professore per vestire quelli del tenace
avventuriero. Diversamente però stanno le cose ne
Il Codice da Vinci, dove gli
studiosi ci sono sì, ma sono studiosi ricchi e pazzi, o ingiacchettati e
compiti; studiosi troppo belli e ingessati, troppo plastici e piatti, perché
venga voglia di seguirli. Tanto, che avranno la risposta a tutti gli arcani,
o che troveranno improbabili vie d’uscita anche nelle situazioni più
improbabili, è cosa evidente da subito a chiunque (e se non fosse evidente,
aspettate di vedere la scena in cui Audry Tatou fa vari chilometri in retro
marcia su un marciapiede del centro di Parigi, e non avrete più dubbi).
Questo per dire che la materia prima del film di Ron Howard, ovvero
l’adattamento a sceneggiatura del romanzo originale, poteva essere un buon
punto di partenza, e poteva vantare un discreto potenziale: il mistero del
vero Graal, la negazione della donna, il gioco della simbologia, la ricerca
a ritroso per scoprire la verità, e, ovviamente, i nemici alle spalle dai
quali bisogna scappare. Nel complesso ce ne era abbastanza per ottenere un
buon film giallo, piacevole e leggero, nel senso migliore del termine, ma la
pretenziosità di Ron Howard ha reso discutibili troppe cose. Non solo per
gli scivoloni di stile come la retromarcia di cui sopra, (ma ci sarebbero
anche alcune scene risolutive poco credibili, come la discesa acrobatica
dall’aereo che atterra in Francia o l’illuminazione di Tom Hanks davanti al
lavandino) ma soprattutto per la solennità della quale il regista ha voluto
impregnare tutto il film. Permane infatti un registro grave e serioso quasi
per l’intera durata della pellicola, e il fatto di certo non giova alla
godibilità del film; primo perché si tratta di un film di più di due ore
all’interno delle quali lo spettatore necessiterebbe di alcune “pause”,
secondo per la fragile credibilità del film stesso, considerata la quale,
maggior ironia non guasterebbe. Del resto non giovano al film nemmeno le
scelte degli attori, fatte probabilmente a tavolino anziché guardando le
reali necessità dei personaggi. Voto: 18/30 15/06/2006 |
||||
|
||||
|