
Storia d'amore dai toni onirici quella intrecciata dal prolifico Michael
Winterbottom nel suo nuovo lavoro
Codice 46, film dalle premesse più che interessanti, che utilizza la
fantascienza come sfondo su cui proiettare vicende umane di respiro
universale. Tim Robbins (bravo, ma leggermente algido) è un investigatore
specializzato in frodi, trascinato dal proprio lavoro in una Shanghai
futurista e convulsa; il suo incarico lo porterà ad incontrare Maria
(Samantha Morton), piccola truffatrice e spirito nomade, e ad iniziare con
lei una relazione inquieta, ostacolata dalle rispettive posizioni sociali e
dalla crudele predestinazione cui si è soggetti nel futuro ipotizzato dal
racconto. Nell'affrontare la tematica cardine della fantascienza post
“1984”, quella, cioè, della limitazione delle libertà personali e della
ineluttabile segregazione sociale, il film di Winterbottom predilige un
approccio intimista, che riflette, attraverso la storia d'amore tra i
protagonisti, sul significato della verità nelle relazioni interpersonali e
sul ruolo della memoria come cifra reale della nostra umanità. In un mondo
in cui è necessario un passaporto per accedere alle città (e, di riflesso,
alla ricchezza), in cui è obbligatorio sottoporsi ad un test di
compatibilità genetica (eugenetica?) per poter procreare, l'individuo inteso
come essere non riproducibile trova la propria piena espressione solamente
nei moti dell'inconscio, nell'istintualità dei sentimenti, dei sogni, del
sesso. Prendendo le mosse, dunque, da un presupposto interessante,
Codice 46 si scontra con una
certa quantità di lacune stilistiche e risente di un montaggio smaccatamente
videoclipparo che spezza l'atmosfera ipnotica suggerita da una colonna
sonora di gusto post-rock di buona fattura. La regia alterna momenti
esteticamente interessanti, come l'ingresso all'alba in una Shanghai
spettrale o la lodevole intensità con cui è dipinto il deserto che circonda
la città, ad altri piuttosto pretenziosi, a partire dai primissimi piani
rallentati che incorniciano il volto dell'efebica Samantha Morton nelle
pessime scene di sesso; non aiuta una fotografia “indecisa”, che si lancia
in repentini cambi di atmosfera quando una maggiore linearità si sarebbe
perfettamente sposata con il ritmo cadenzato della pellicola. Ciò che più
delude di Codice 46 è la
grossolanità di certe soluzioni di sceneggiatura, che appaiono poco curate,
come a confermare la sensazione che Winterbottom abbia voluto costruire una
messinscena esteticamente appagante piuttosto che concentrarsi
nell'approfondire l'interazione tra personaggi ed ambientazione temporale.
La caratterizzazione del near future rappresentato nel film, ad
esempio, è buona a metà; il regista convince quando lavora di sottrazione,
disorientando lo spettatore, glissando sulle spiegazioni, inserendo elementi
destabilizzanti (misteriosi virus che alterano le percezioni, impianti di
memoria), ma fallisce nella rappresentazione del meticciato sociale che
contraddistingue il suo ipotetico futuro. La “lingua totale” parlata dai
protagonisti si riduce ad un bislacco e fastidioso inglese con qualche
puntata nello spagnolo (un paio di “dinero” e qualche “te quiero”) ed una
manciata di ça va, e l'inserimento di personaggi secondari di ogni
razza è un espediente decisamente grossolano.
Codice 46, in definitiva, è
un film che avrebbe meritato una regia più attenta e sobria, una maggiore
attenzione ai particolari ed una certa scaltrezza stilistica che certamente
manca a Winterbottom, che da una bella storia distilla un'opera appena
sufficiente, pretenziosa ed eccessivamente autoindulgente.
Voto: 20/30
17.05.2004
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