Ha il sapore della parabola a tesi - più
vagamente del romanzo di formazione di impianto ottocentesco -
Clean di Olivier Assayas,
conferma della variegata ricchezza del giovane-ma-non-troppo cinema
francese. Una tesi, però, che se da una parte giunge a una risoluzione
(positiva), dall’altra accentra in sé, e senza presunzione, elementi di
ambiguità, contraddizioni violente, sussulti di critica sociale.
La storia di Emily, rockstar tossicodipendente e un po’ in ombra che, dopo
la morte per overdose del marito rocker, capisce che, in nome del figlio mai
allevato e della sua dignità di donna/madre, è necessaria una personale
“pulizia” interna ed esterna è narrata, com’è nello stile di Assayas, con lo
sguardo dell’antropologo partecipe e scrupoloso: gli intenti legittimamente
morali non si insabbiano nell’esternazione didascalica, e i personaggi,
vivificati da una messinscena libera (“mi pare inutile la pesantezza del
cinema moderno” spiega Assayas), prendono corpo e sangue e anima di fronte
ai nostri occhi.
Clean è, a tutti gli effetti,
soprattutto un film di attori e di direzione di attori: Maggie Cheung, ex
musa anche sentimentale del regista (il film, per il quale ha ricevuto la
Palma d’oro per la migliore attrice a Cannes, è stato scritto su e per lei),
si offre per ciò che è anche realmente, un corpo vibrante scisso fra lingue
culture identità; Nick Nolte, scelto dopo che Alan Bates si è reso
indisponibile per motivi di salute e che Kris Kristofferson ha rinunciato
perché già impegnato nel terzo episodio di Blade, assume la leggiadra
tragicità di un padre/suocero goffo e generoso, vecchio e disilluso.
La pulizia etica di Emily è anche, e fisicamente evidente, pulizia estetica
in un film freddo nella fotografia e distante nei toni ma assolutamente
partecipe e coinvolgente (il pianto di Emily verso la fine), “inventato” in
una geografia filmica – Canada, Parigi, Londra – spersonalizzante.
Ad ogni modo, di questo e altro ne abbiamo
parlato (in perfetto italiano, è il caso di dirlo!) proprio con Assayas,
artista discreto e sensibile anche nei rapporti umani:
KINEMATRIX Dai tempi di Cannes si legge che ha scritto il film su
Maggie Cheung: perché si è deciso a riutilizzarla dopo vari film con star
francesi e americane (Chloe Sevigny, Gina Gershon,…)? E quanto c’è della
reale Maggie Cheung nel suo personaggio (l’incontro di più culture, il
conseguente spaesamento, il risalire alle proprie radici…)?
ASSAYAS Innanzitutto c’è da dire che quando scrivo, e poi dirigo, io
mi lascio trasportare completamente dai personaggi, le stesse emozioni,
astratte o meno, si trasferiscono quasi immediatamente ai personaggi. Il mio
approccio è dunque, anche se potrebbe non sembrarlo, intuitivo,
assolutamente istintivo: del resto, non mi sembra ci possa essere un altro
modo per dare vita a dei personaggi che in realtà non esistono.
Un film come questo, dunque, per il quale ho sentito nitidamente il reale
bisogno di realizzare e con il quale sono tornato a un film di personaggi
dopo le astrazioni di Demon Lover,, nasce veramente grazie a Maggie Cheung.
Avevo il desiderio, determinante per la futura realizzazione del film, di
costruire una storia su Maggie e per Maggie.
Senza di lei non ci sarebbe stato Clean e, una volta che lei ha accettato,
il personaggio si è arricchito anche e soprattutto grazie all’apporto di
Maggie stessa. Con lei non c’è mai stata nessuna discussione formale sul
personaggio, ma ne abbiamo continuamente parlato, esplorandolo,
sviluppandolo, rendendolo vivo. A parte alcune passioni (il biliardo, il
canto), nel personaggio di Emily c’è anche tutta l’insicurezza, la fragilità
emotiva di Maggie, e anche tutta la sua geografia (Hong Kong, Francia,
America, Inghilterra) e le sue ovvie derive – l’incontro di culture
frammentate, la mistura di lingue…

KINEMATRIX Più volte ha fatto riferimento a una contrapposizione fra
una concreta pesantezza del cinema, che ha voluto evitare, e una sua
supposta leggerezza…
ASSAYAS Sì, con pesantezza intendo proprio un fattore concreto,
fisico, ovvero tutti quegli impedimenti, quei rallentamenti che le troupe
cinematografiche incontrano in produzioni internazionali, soprattutto
americane: dalle difficoltà sindacali con gli attori o con l’utilizzo delle
locations alla incapacità proprio di pensare in termini di équipe piccole,
minimali (come invece ho sempre lavorato in Francia).Ovvio che questa
pesantezza – che non è altro che una professionalità, con anche i suoi lati
positivi per carità, spinta agli estremi - limita la libertà tecnica, e
dunque quella creativa, propagandata con tanto vigore fin dai tempi della
Nouvelle Vague. In questo caso, dunque, per ricreare quell’aria di famiglia
delle piccole troupe abbiamo sperimentato anche espedienti di natura
tecnica, come l’utilizzo della cinepresa Aton 35mm, che è piccola quanto una
telecamera digitale e permette agilità, flessibilità, inventiva.

KINEMATRIX Dopo aver esplorato il mondo dei giovani degli anni ’70,
quello dei serial muti da rifare nella contemporaneità e dei cybermanga,
approda ora al rock e alle sue derive esistenziali (droga, emarginazione,
bisogno morale di rinnovarsi): da dove nasce l’interesse per queste culture
alternativo-underground?
ASSAYAS Beh, io sono cresciuto negli anni ’70: questa è la mia
cultura. Mi sono sempre interessato alla cultura popolare, la cultura pop
appunto, e non soltanto in termini cinematografici: anzi, direi che fra
musica, letteratura, grafismo e filosofia, il cinema è l’arte che meno mi
interessava e meno, forse, mi interessa. La mia ispirazione nella scrittura
di personaggi, ambienti e tutto il resto si basa sicuramente più
sull’osservazione del mondo tramite le altri arti che sull’osservazione
dello stesso mondo attraverso il cinema. Però, poi, faccio cinema…
Sulle influenze del cinema, poi, dovrei fare anche un altro discorso visto
che le mie ispirazioni sono assolutamente lontane dai riferimenti tipici dei
cineasti francesi del passato e di oggi: ho sempre trovato, ancora prima di
conoscere e di diventare amico di Hou Hsiao-Hsien e degli altri suoi
colleghi connazionali, un dialogo estremamente (e reciprocamente)
comunicativo più con il cinema taiwanese o asiatico in generale che con
quello della mia patria. Ai tempi del mio esordio, e tuttora, la mia visione
del mondo e del cinema era, quindi, piuttosto quella di Hou Hsiao-Hsien,
Edward Yang, più tardi Wong Kar-wai e non tanto quella di Luc Besson, Leos
Carax e gli altri registi francesi.
Del cinema francese, il nume assoluto è sicuramente Bresson, ma in questo
caso, come per Bergman, Antonioni e Pasolini (e in misura appena minore
Visconti e Rossellini), si parla quasi di astrazioni umane e
cinematografiche… In ogni caso, e non sono l’unico della mia generazione,
per quanto riguarda il cinema geograficamente più consono alla mia
estrazione sono semmai legato più a quello degli anni Sessanta.

KINEMATRIX Dalla Francia verso l’Ovest, immaginario e reale: a cosa è
dovuta una tale scelta di locations (Nord America, Canada…)?
ASSAYAS La logica geografica è veramente determinata da due fattori:
l’uno, obiettivo, è la personalità specifica di Maggie, ovvero scrivendo una
storia su Maggie non potevo scrivere una storia propriamente francese poiché
lei, per restare nell’esempio banale, non parla un francese corretto ma un
francese da straniera; l’altro, mitico, è lo spazio geografico della musica,
ovvero il no man’s land americano e Londra; inoltre, visto che poi faccio un
film francese, il centro di gravità sarà ovviamente Parigi. Nasce così una
geografia astratta, che peraltro corrisponde alla personalità sovranazionale
di Maggie, che è il centro del film; il suo soggetto è in fondo la
proiezione in un mondo mondializzato da parte di un personaggio classico di
un dramma abbastanza classico, quello di una madre alla ricerca del suo
figlio.
KINEMATRIX Cineasta e critico (o ex critico): sono esigenze diverse e
inconciliabili oppure, come sembrerebbe dal suo cinema appassionato e pur
sempre intellettuale, c’è un punto di contatto e di estensione reciproca di
una professione nell’altra e in che misura a suo avviso?
ASSAYAS E’ un po’ difficile rispondere a questa domanda perché è una
storia piuttosto vecchia. Io ho scritto di cinema dal 1980 al 1985 circa, ma
anche in questo periodo ero già anche, e perlopiù come personale feeling
creativo, autore di sceneggiature e di cortometraggi. Non mi sono mai
considerato un critico e ho scritto per i Cahiers du Cinéma semplicemente
perché loro sono venuti a cercarmi perché avevano bisogno di intelletti
freschi: così, non avendo fatto una scuola di cinema (ho studiato
letteratura francese), pensai che era utile poterne praticare una, ed
eccellente per giunta, all’interno della redazione della rivista. C’è anche
da dire che stimavo molto i direttori che mi cercarono, Serge Daney e Serge
Toubiana, e inoltre c’era il fortissimo stimolo romantico di entrare a fare
parte di una tradizione di scrittori che erano diventati e diventavano
registi. Adesso è finita questa tradizione, non è esattamente morta ma ci
siamo quasi, in ogni modo è tutto diverso: pochissimi redattori dei Cahiers
vogliono fare i registi.

KINEMATRIX Si può già parlare di un prossimo progetto: segnerà il
ritorno in Francia o sarà di nuovo una storia cosmopolita di personaggi che
hanno più culture nel cuore e nell’anima?
ASSAYAS Potrei definirlo un “film francese cosmopolita”. La
sceneggiatura è pronta e le riprese inizieranno questa estate. Stavolta il
film, il cui titolo provvisorio è
Voilà l’été, è costruito su Daniel Auteuil, e sarà una sorta di
commedia, più solare e positiva…
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