Riscoperte morali

e ‘cleaniche’ sentimentali

 

Clean
Francia-Canada-Gran Bretagna 2004
di Olivier Assayas


Con Maggie Cheung, Nick Nolte, Béatrice Dalle,

Jeanne Balibar, Don McKellar, James Johnston, James Dennis
 

(uscita: 6 maggio 2005)
 

::: KINEINTERVISTA :::

di Roberto DONATI

 

Ha il sapore della parabola a tesi - più vagamente del romanzo di formazione di impianto ottocentesco - Clean di Olivier Assayas, conferma della variegata ricchezza del giovane-ma-non-troppo cinema francese. Una tesi, però, che se da una parte giunge a una risoluzione (positiva), dall’altra accentra in sé, e senza presunzione, elementi di ambiguità, contraddizioni violente, sussulti di critica sociale.
La storia di Emily, rockstar tossicodipendente e un po’ in ombra che, dopo la morte per overdose del marito rocker, capisce che, in nome del figlio mai allevato e della sua dignità di donna/madre, è necessaria una personale “pulizia” interna ed esterna è narrata, com’è nello stile di Assayas, con lo sguardo dell’antropologo partecipe e scrupoloso: gli intenti legittimamente morali non si insabbiano nell’esternazione didascalica, e i personaggi, vivificati da una messinscena libera (“mi pare inutile la pesantezza del cinema moderno” spiega Assayas), prendono corpo e sangue e anima di fronte ai nostri occhi.
Clean è, a tutti gli effetti, soprattutto un film di attori e di direzione di attori: Maggie Cheung, ex musa anche sentimentale del regista (il film, per il quale ha ricevuto la Palma d’oro per la migliore attrice a Cannes, è stato scritto su e per lei), si offre per ciò che è anche realmente, un corpo vibrante scisso fra lingue culture identità; Nick Nolte, scelto dopo che Alan Bates si è reso indisponibile per motivi di salute e che Kris Kristofferson ha rinunciato perché già impegnato nel terzo episodio di Blade, assume la leggiadra tragicità di un padre/suocero goffo e generoso, vecchio e disilluso.
La pulizia etica di Emily è anche, e fisicamente evidente, pulizia estetica in un film freddo nella fotografia e distante nei toni ma assolutamente partecipe e coinvolgente (il pianto di Emily verso la fine), “inventato” in una geografia filmica – Canada, Parigi, Londra – spersonalizzante.
 

 

Ad ogni modo, di questo e altro ne abbiamo parlato (in perfetto italiano, è il caso di dirlo!) proprio con Assayas, artista discreto e sensibile anche nei rapporti umani:

KINEMATRIX Dai tempi di Cannes si legge che ha scritto il film su Maggie Cheung: perché si è deciso a riutilizzarla dopo vari film con star francesi e americane (Chloe Sevigny, Gina Gershon,…)? E quanto c’è della reale Maggie Cheung nel suo personaggio (l’incontro di più culture, il conseguente spaesamento, il risalire alle proprie radici…)?

ASSAYAS Innanzitutto c’è da dire che quando scrivo, e poi dirigo, io mi lascio trasportare completamente dai personaggi, le stesse emozioni, astratte o meno, si trasferiscono quasi immediatamente ai personaggi. Il mio approccio è dunque, anche se potrebbe non sembrarlo, intuitivo, assolutamente istintivo: del resto, non mi sembra ci possa essere un altro modo per dare vita a dei personaggi che in realtà non esistono.
Un film come questo, dunque, per il quale ho sentito nitidamente il reale bisogno di realizzare e con il quale sono tornato a un film di personaggi dopo le astrazioni di Demon Lover,, nasce veramente grazie a Maggie Cheung. Avevo il desiderio, determinante per la futura realizzazione del film, di costruire una storia su Maggie e per Maggie.
Senza di lei non ci sarebbe stato Clean e, una volta che lei ha accettato, il personaggio si è arricchito anche e soprattutto grazie all’apporto di Maggie stessa. Con lei non c’è mai stata nessuna discussione formale sul personaggio, ma ne abbiamo continuamente parlato, esplorandolo, sviluppandolo, rendendolo vivo. A parte alcune passioni (il biliardo, il canto), nel personaggio di Emily c’è anche tutta l’insicurezza, la fragilità emotiva di Maggie, e anche tutta la sua geografia (Hong Kong, Francia, America, Inghilterra) e le sue ovvie derive – l’incontro di culture frammentate, la mistura di lingue…
 


KINEMATRIX Più volte ha fatto riferimento a una contrapposizione fra una concreta pesantezza del cinema, che ha voluto evitare, e una sua supposta leggerezza…

ASSAYAS Sì, con pesantezza intendo proprio un fattore concreto, fisico, ovvero tutti quegli impedimenti, quei rallentamenti che le troupe cinematografiche incontrano in produzioni internazionali, soprattutto americane: dalle difficoltà sindacali con gli attori o con l’utilizzo delle locations alla incapacità proprio di pensare in termini di équipe piccole, minimali (come invece ho sempre lavorato in Francia).Ovvio che questa pesantezza – che non è altro che una professionalità, con anche i suoi lati positivi per carità, spinta agli estremi - limita la libertà tecnica, e dunque quella creativa, propagandata con tanto vigore fin dai tempi della Nouvelle Vague. In questo caso, dunque, per ricreare quell’aria di famiglia delle piccole troupe abbiamo sperimentato anche espedienti di natura tecnica, come l’utilizzo della cinepresa Aton 35mm, che è piccola quanto una telecamera digitale e permette agilità, flessibilità, inventiva.


KINEMATRIX Dopo aver esplorato il mondo dei giovani degli anni ’70, quello dei serial muti da rifare nella contemporaneità e dei cybermanga, approda ora al rock e alle sue derive esistenziali (droga, emarginazione, bisogno morale di rinnovarsi): da dove nasce l’interesse per queste culture alternativo-underground?

ASSAYAS Beh, io sono cresciuto negli anni ’70: questa è la mia cultura. Mi sono sempre interessato alla cultura popolare, la cultura pop appunto, e non soltanto in termini cinematografici: anzi, direi che fra musica, letteratura, grafismo e filosofia, il cinema è l’arte che meno mi interessava e meno, forse, mi interessa. La mia ispirazione nella scrittura di personaggi, ambienti e tutto il resto si basa sicuramente più sull’osservazione del mondo tramite le altri arti che sull’osservazione dello stesso mondo attraverso il cinema. Però, poi, faccio cinema…
Sulle influenze del cinema, poi, dovrei fare anche un altro discorso visto che le mie ispirazioni sono assolutamente lontane dai riferimenti tipici dei cineasti francesi del passato e di oggi: ho sempre trovato, ancora prima di conoscere e di diventare amico di Hou Hsiao-Hsien e degli altri suoi colleghi connazionali, un dialogo estremamente (e reciprocamente) comunicativo più con il cinema taiwanese o asiatico in generale che con quello della mia patria. Ai tempi del mio esordio, e tuttora, la mia visione del mondo e del cinema era, quindi, piuttosto quella di Hou Hsiao-Hsien, Edward Yang, più tardi Wong Kar-wai e non tanto quella di Luc Besson, Leos Carax e gli altri registi francesi.
Del cinema francese, il nume assoluto è sicuramente Bresson, ma in questo caso, come per Bergman, Antonioni e Pasolini (e in misura appena minore Visconti e Rossellini), si parla quasi di astrazioni umane e cinematografiche… In ogni caso, e non sono l’unico della mia generazione, per quanto riguarda il cinema geograficamente più consono alla mia estrazione sono semmai legato più a quello degli anni Sessanta.
 



KINEMATRIX Dalla Francia verso l’Ovest, immaginario e reale: a cosa è dovuta una tale scelta di locations (Nord America, Canada…)?

ASSAYAS La logica geografica è veramente determinata da due fattori: l’uno, obiettivo, è la personalità specifica di Maggie, ovvero scrivendo una storia su Maggie non potevo scrivere una storia propriamente francese poiché lei, per restare nell’esempio banale, non parla un francese corretto ma un francese da straniera; l’altro, mitico, è lo spazio geografico della musica, ovvero il no man’s land americano e Londra; inoltre, visto che poi faccio un film francese, il centro di gravità sarà ovviamente Parigi. Nasce così una geografia astratta, che peraltro corrisponde alla personalità sovranazionale di Maggie, che è il centro del film; il suo soggetto è in fondo la proiezione in un mondo mondializzato da parte di un personaggio classico di un dramma abbastanza classico, quello di una madre alla ricerca del suo figlio.

KINEMATRIX Cineasta e critico (o ex critico): sono esigenze diverse e inconciliabili oppure, come sembrerebbe dal suo cinema appassionato e pur sempre intellettuale, c’è un punto di contatto e di estensione reciproca di una professione nell’altra e in che misura a suo avviso?

ASSAYAS E’ un po’ difficile rispondere a questa domanda perché è una storia piuttosto vecchia. Io ho scritto di cinema dal 1980 al 1985 circa, ma anche in questo periodo ero già anche, e perlopiù come personale feeling creativo, autore di sceneggiature e di cortometraggi. Non mi sono mai considerato un critico e ho scritto per i Cahiers du Cinéma semplicemente perché loro sono venuti a cercarmi perché avevano bisogno di intelletti freschi: così, non avendo fatto una scuola di cinema (ho studiato letteratura francese), pensai che era utile poterne praticare una, ed eccellente per giunta, all’interno della redazione della rivista. C’è anche da dire che stimavo molto i direttori che mi cercarono, Serge Daney e Serge Toubiana, e inoltre c’era il fortissimo stimolo romantico di entrare a fare parte di una tradizione di scrittori che erano diventati e diventavano registi. Adesso è finita questa tradizione, non è esattamente morta ma ci siamo quasi, in ogni modo è tutto diverso: pochissimi redattori dei Cahiers vogliono fare i registi.


KINEMATRIX Si può già parlare di un prossimo progetto: segnerà il ritorno in Francia o sarà di nuovo una storia cosmopolita di personaggi che hanno più culture nel cuore e nell’anima?

ASSAYAS Potrei definirlo un “film francese cosmopolita”. La sceneggiatura è pronta e le riprese inizieranno questa estate. Stavolta il film, il cui titolo provvisorio è Voilà l’été, è costruito su Daniel Auteuil, e sarà una sorta di commedia, più solare e positiva…
 

Clean
Regia: Olivier Assayas
Anno: 2004
Nazione: Francia/Canada/Gran Bretagna

Data uscita in Italia: 06:05:2005
Colore, 110’

Distribuzione italiana: Istituto Luce