
I film orientali ci hanno da tempo abituato alla violenza
della mafia, alla lotta cruenta e spietata tra bande rivali. Le opere
del più celebre (e probabilmente anche più valido) regista
contemporaneo del filone Yakuza, Takeshi Kitano, sono spesso difficili
da vedere, non solo per la cieca violenza che sembra permearne ogni fibra,
ma anche per il nichilismo che solitamente accompagna i personaggi verso
la morte.
CHINGU, campione d'incassi in patria, pur non distaccandosi completamente
da questo genere, si propone però come un'opera che, entro certi
limiti, si sviluppa con una certa originalità.
L'intero film è in realtà un collage di ricordi, filtrato
dalla memoria di uno dei protagonisti. La storia è quella di quattro
amici d'infanzia che crescono insieme e prendono inesorabilmente strade
diverse. Due di loro diventano capi di bande rivali, mentre gli altri
assistono impotenti all'escalation di violenza che porta gli ex-amici
sempre più vicini ad affrontarsi.
Il regista taiwanese racconta con abilità ed intelligenza la vicenda,
il cui ritmo diventa convulso nelle memorabili sequenze d'azione, per
poi rallentare bruscamente e soffermarsi su lunghi dialoghi tra i personaggi.
Kwan Kyung Taek costruisce un film a tratti spettacolare, non disdegnando
di utilizzare gli espedienti tecnici e narrativi tipici del più
classico Hong-Kong movie: ralenti, fermo immagine, musica incalzante,
grandi scene di massa.
D'altra parte la sceneggiatura cura molto bene anche i dialoghi, offrendoci
una visione più intima dei personaggi, e facendoli in tal modo
emergere dalla violenza di fondo. Questa scelta pare molto azzeccata perché
permette, attraverso le conversazioni, di raccontare i sentimenti spesso
contrastanti dei quattro protagonisti. La loro amicizia, che all'interno
del film trascende letteralmente il bene ed il male ed assurge a valore
assoluto, si trova in eterno conflitto con una realtà che spesso
li costringe a scelte difficili.
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