CHICAGO
di Bob Marshall
con Renée Zellweger e
Catherine Zeta-Jones



A] Prima fondamentale osservazione: il film, considerato "a prescindere" dai recenti precedenti di enorme successo internazionale - sapete a cosa ci riferiamo…- è un ottimo "product", lavoro in pellicola freddo, raffinato quanto basta nella confezione e frettolosamente prodotto per contrastare, in maniera stizzita, "quel" film, che aveva [come altrove l'inglese saga di HARRY POTTER e la neozelandese -???- simile serie de IL SIGNORE DEGLI ANELLI ] osato sfidare soprattutto a livello di produzione e di effetti speciali, cioè sul piano proprio della sfida americana, il colosso hollywoodiano, ormai boccheggiante in quanto a originalità d'idee e voglia di rischiare.
Come dire: se fossero stati girati in America, MOULIN ROUGE e i due film appena citati, avrebbero conquistato una decina di statuette a testa, è ovvio, vista la fantasia libera messa in campo, cioè proprio ciò che ora manca a Miramax e in parte a Dreamworks [salvo CATCH ME IF YOU CAN e in parte MINORITY REPORT, limitandoci ai blockbuster].
Ma il provincialismo imperante a Los Angeles ha costretto i due corpulenti fratellini dell'ex dépendance colta della Disney a emarginare l'anno scorso il capolavoro di Luhrman e la fantastica performance della Kidman, con la scusa del politically correct black-oriented arrivato con 20 anni almeno di ritardo, e a tirare fuori qualcosa che tenta d'imitare l'ironia nera di Bob Fosse [sua la versione a Broadway di un testo già percorso e ripercorso già dagli anni '20 e poi, successivamente, nei '40, con Ginger Rogers qui replicata dalla maniacale Zellweger, comunque meglio della manza Zeta-Jones, che affascina quanto un bel po' di chili di carne ben tornita, mentre scalcia e sgroppa sui legni neri del palcoscenico].
Frenesia produttiva, voglia di rivincita persa in partenza: almeno una delle due attrici è sbagliata e Gere, sì, decente, ma manca il pathos, che abbondava in tutti i film di Fosse, la "poetica" dell' Autore, la visione pessimistico-narcisistica che univa vita presa a morsi [Fosse come playboy incallito] e costante intuizione della fine/ morte presente dietro la maschera del Teatro, usato come continua evocazione e luogo di esorcizzazione di quella.
Marshall è un ottimo mestierante e copia dove può, soprattutto nel posizionamento della M.D.P., con improvvisi dettagli sghembi, ravvicinatissimi e noireggianti [ specie nei numeri iniziali ] e piani medi del palcoscenico -una prigione ideal-virtuale - ripreso un po' da sotto, alla CABARET, per intenderci, ma che qui sono maniera e non stile costante, ribattuto, specchio di coerenza e consapevolezza stilistica.
I personaggi dovrebbero essere tanti, come le decine di tipi psicologici che interessavano a Fosse, mentre invece tutto pesa su quelle quattro figurine prive di spessore, a meno che non ne vogliamo concedere un po' alla Bridget Jones rogersiana.
Tutto freddo, tutto velocizzato, tutto solo tecnicamente ineccepibile, ma senza le invenzioni, le illuminazioni a volte anche sciatte o kitsch - la morte-Jessica Lange in ALL THAT JAZZ avvolta in un flou costante e metaforico- di Fosse, capace di fare un film, STAR 80, sulla triste e un po' misera storia della playmate Dorothy Stratten uccisa dal fidanzato 23 anni orsono, dopo essere stata l'amante nientemeno che di Peter Bogdanovich [!].
I numeri si susseguono un po' troppo catacombali e lividi, con ballerine di seconda fila un po' prive di personalità o evidenti doti estetiche, laddove invece la prosperosissima e assai sexy Queen Latifah, cantante vera nella vita professionale, intriga il giusto nelle prime battute del film e non solo.
QUINDI: come tale, il film è sufficiente, ma alla lunga persino un po' noiosetto, con la parte processuale a dir il vero un po' prevedibile e Gere, d'accordo, è bravetto, ma ammicca anche troppo e sinceramente la voce è terribile…
La weinsteiniana foga di opporre al folle e libero cromatismo di MOULIN ROUGE l'altezza fossiana di capolavori come CABARET, perdipiù con il "gadget" non richiesto dell'impegno di fondo, cioè la storia di cinismo e pseudoredenzione di due assassine [viva gli anni '20 e, appunto, il loro cinismo che appiattiva tutto, mafiosi ed eroine da tabloid macchiate di sangue e poi regine del… cabaret o si propone un'altra morale? O alla fine si butta tutto in faccia allo spettatore tanto per dire: vedi, qui si parla di carcere femminile, la cosa è seria, non "frivola" come nel film australiano del regista di ROMEO+GIULIETTA ? Mistero… ], fallisce del tutto, perché Fosse rimane al suo posto, inarrivabile, e il CHICAGO in pellicola non vale un decimo della versione teatrale del 1975, quella, tanto per essere chiari, diretta dall' autore di LENNY.
Fosse ci parlava di perdenti, mentre qui la figura che fanno le due frizzanti killer è quella di due "vincenti" tout-court, sempre e comunque in perfetto e neutro american-style.
CHICAGO farà ingiusta incetta di statuette, come l'anno scorso A BEAUTIFUL MIND [e vabbè…]: tanto varrebbe, vista la comune appartenenza di scuderia di GANGS OF NEW YORK e THE HOURS, spostare l'attenzione verso quei due film, mentre tutti sappiamo che il trionfatore dell'anno rimane in ogni caso IL PIANISTA insieme all'ultimo Kaurismaki.

B] Seconda, altrettanto fondamentale osservazione: per tutto ciò che si è detto, il film è stato pensato e prodotto per rendere meno dolorosa la ferita aperta da MOULIN ROUGE [come osano quei trogloditi degli australiani, meglio, come hanno fatto loro e i neozelandesi tolkeniani a crescere così in fretta in questi ultimi anni? Se ci battono sul piano degli effetti speciali e del musical siamo finiti!!!], il fantasmagorico, ipercromatico, gioiosamente e continuamente inventivo film sull'amore bohemiènne in lotta con le ragioni del denaro, a cavallo di due secoli.
Ma se per il confronto con Fosse abbiamo argomentato a lungo, qui, per motivi di manifesta inferiorità del prodotto americano, tralasciamo ulteriori giudizi.
Per non dire dell'impossibile confronto sulla recitazione dei singoli attori [ Kidman! Mc Gregor! Broadbent! Leguizamo! Tutti al meglio e divertitissimi, oltreché divertentissimi, contro una manciata di insipidi protagonisti nell'altro film ], sulle scenografie, sui costumi, sulle infinite invenzioni tecniche e registiche presenti in MR, opera pensata e girata col "cuore".
Sulla colonna sonora, poi, non ha neanche senso iniziare a parlare.

Gli americani perdono colpi dappertutto, anche dove un tempo erano maestri assoluti: ben vengano i cugini australiani, neozelandesi o gli odiati inglesi, che, imparata anche grazie all' AVID e all'uso del PC la lezione tecnologica, mettono in campo la proverbiale ironia e gioia di fare, creare, inventare di chi sta da troppo tempo ai margini dell'industria cinematografica [ ma a questo punto questo è un bene! Vedasi Benigni, il comico una volta libero e gioioso, che, "inceramicato" e americanizzato a dovere, si è subito intristito e ha creduto di dover fare il kolossal che qui nessuno gli chiedeva, col risultato di tirar fuori una delle cose più tristi del cinema italiano degli ultimi anni ].
Sono passati i tempi della Miramax-casa-alternativa-che-rischia con neo-talenti alla Tarantino…
Forza Kiwi e forza Aussie, dunque, che il pachiderma è pronto a crollare prima di quanto si potesse immaginare!

Voto: 22/30

Gabriele Francioni
15 - 03 - 03


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